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di-matteo-mezzojusoNino Di Matteo ricostruisce la vicenda della mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso
di Lorenzo Baldo - 25 marzo 2013
Palermo. “Le imputazioni di favoreggiamento aggravato mosse agli odierni imputati, incrociano inevitabilmente, e ne costituiscono un segmento fondamentale, la più complessa storia dei rapporti tra lo Stato e la mafia nel cruciale ventennio degli anni ’80 e ’90. Quelle condotte solo in tale contesto più generale potranno essere adeguatamente valutate. Una storia, quella del rapporto tra lo Stato e la mafia, nella quale (al di là dell’apparenza, al di là della facile retorica, degli inutili e spesso falsi e strumentali proclami di una politica in realtà in larga parte vergognosamente insensibile, anche al sangue di tanti servitori dello Stato) una parte delle istituzioni, anche in nome di una ritenuta ma inconfessabile e pertanto mai dichiarata ‘ragione di Stato’, ha cercato ed ottenuto il dialogo con l’organizzazione mafiosa nel convincimento, rivelatosi del tutto sciagurato, che quel dialogo, quella mediazione fossero utili ad arginare le manifestazioni più violente dell’agire mafioso e come tali destabilizzanti l’ordine pubblico. Questo è un processo drammatico in cui lo Stato processa se stesso ”. Il pm Nino Di Matteo introduce dettagliatamente la prima parte della sua requisitoria al processo che vede alla sbarra Mario Mori e Mauro Obinu per la mancata cattura di Provenzano.

Accanto a lui è seduto il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, successivamente giungono i colleghi Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. In aula c’è anche l’europarlamentare Sonia Alfano, presidente della Commissione antimafia europea.  E’ la giornata nella quale si iniziano a tirare le somme di un procedimento penale durato cinque anni che ha visto sfilare sul banco dei testimoni pezzi dello Stato, ex potenti, figli di mafiosi, carabinieri e collaboratori di giustizia. “Noi non sosteniamo che il gen. Mori e il col. Obinu abbiano favorito Provenzano e Cosa Nostra perché già inizialmente collusi – spiega Di Matteo –, né tantomeno perché ipoteticamente corrotti o costretti e condizionati dalla paura o dal ricatto. Non è questa l’impostazione accusatoria. Nulla di tutto ciò”. “Il gen. Mori, e per l’effetto il suo fedele sottoposto colonnello Obinu – ribadisce il pm –, è stato un ufficiale dei carabinieri che in un determinato e particolarmente delicato frangente storico per il nostro Paese – obbedendo a indirizzi di politica criminale, anche da altri predeterminati –  per contrastare la deriva stragista imposta da Salvatore Riina e dai suoi sodali di più stretto riferimento, ha ritenuto di trovare un rimedio nell’assecondare la prevalenza in seno alla compagine mafiosa della sua ala più moderata, quella in quel momento refrattaria alla prosecuzione della strategia di contrapposizione frontale allo Stato realizzata attraverso omicidi eccellenti ed attentati eclatanti anche con chiaro metodo terroristico. Gli odierni imputati hanno commesso ciò che oggi gli viene contestato per favorire la fazione riconducibile a Bernardo Provenzano del quale, prima condizione indispensabile per rafforzarne la leadership in seno a Cosa Nostra era necessario garantire il perdurare del suo stato di latitanza”. “Di fronte alla violazione della legge – specifica Di Matteo –, anche uomini di Stato così potenti, e a prescindere dalle specifiche motivazioni che ne hanno mosso l’agire, ispirato la condotta, non possono sottrarsi alle conseguenze delle loro condotte. Nessuna, vera o presunta, ‘ragione di Stato’, o più semplicemente provenzano-bernardo-web2di opportunità politico-giudiziaria, può giustificare la loro impunità”. Successivamente il pm introduce uno dei punti cardine di questo procedimento: il tentativo di discredito del teste chiave: Michele Riccio. “Tra i tanti colleghi degli imputati che per cercare di screditare in radice l’attendibilità del colonnello Riccio hanno evocato le sue traversie giudiziarie, l’imputato Obinu, o il teste , il gen. Ganzer, sono a loro volta sotto processo per fatti analoghi e anzi certamente ben più gravi rispetto a quelli contestati a Riccio, fatti per i quali hanno riportato pesantissime condanne in primo grado e che proiettano se mai un inquietante fascio di luce su un vero e proprio metodo di disinvolta ed illecita gestione di indagini sul traffico di stupefacenti da parte del Ros. Un metodo che certamente non ha ideato Riccio, non ha coinvolto nella sua esecuzione il solo col. Riccio e che invece nei confronti del solo Riccio (che è stato pure sottoposto alla misura cautelare in carcere subito dopo avere brillantemente condotto le sue indagini in Sicilia) è stato ed è tuttora strumentalmente agitato come una pesante clava per ‘raffreddare’ il fuoco della portata accusatoria delle dichiarazioni che egli avrebbe potuto rendere e che poi ha effettivamente reso sui fatti oggetto di questo giudizio”. Di Matteo sottolinea con forza come nel processo a tanti testimoni come Luciano Violante, Claudio Martelli, Giovanni Conso, Liliana Ferraro ed altri sia tornata loro la memoria solo dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino. “Questo è un processo nel corso del quale sono pesantemente intervenuti tentativi di condizionamento – ribadisce il pm –. Persino di soggetti che ancora dovevano essere sentiti nella fase delle indagini preliminari”. Ecco che viene citato l’on. De Mita “caldamente invitato dai suoi colleghi Mannino e Gargani ad adeguarsi ad una versione concordata da rendere alla procura di Palermo sui fatti concernenti vicende politiche particolarmente importanti del ’92 come l’avvicendamento al ministero dell’Interno tra Mancino e Scotti, fatti che si dipanarono parallelamente alle stragi siciliane”. “Questo è un dibattimento che ha richiamato anche altre ‘attenzioni’ del tutto improprie sollecitate da chi per cercare di orientare una decisione di questo Collegio – mi riferisco al senatore Mancino – sull’ammissione di una prova richiesta a voi giudici dal pubblico ministero (il confronto dibattimentale tra lo stesso Mancino e Martelli), ha invocato  il ‘conforto’ e persino l’intervento del consigliere giuridico del Capo dello Stato. E’ chiaro il riferimento alle conversazioni che abbiamo prodotto intercettate tra il senatore Mancino e il dott. Loris D’Ambrosio in cui il primo (tra l’altro già a lungo vicepresidente del Csm) discutendo con il suo alto interlocutore di come si sarebbe potuto scongiurare il pericolo che questo tribunale eventualmente si orientasse per l’accoglimento della richiesta del pm ha palesato di non tenere di fatto in nessun conto il valore più alto la vostra autonomia, il vostro giudizio semplicemente parlando di questa eventualità”. (segue)

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