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morosini-piergiorgio-big0di Lorenzo Baldo - 9 marzo 2013
“Dall’esame delle fonti indicate si ricavano elementi a sostegno di una ipotesi di esistenza di un progetto eversivo dell’ordine costituzionale, da perseguire attraverso una serie di attentati aventi per obiettivo vittime innocenti e alte cariche dello Stato, rivendicati dalla Falange Armata e compiuti con l’utilizzo di materiale bellico proveniente dai paesi dell’est dell’Europa”. Nel decreto di rinvio a giudizio del gup Piergiorgio Morosini nel procedimento sulla trattativa Stato-mafia la presenza della Falange Armata si fa sempre più tangibile. “Nel perseguimento di questo progetto Cosa Nostra sarebbe alleata con consorterie di ‘diversa estrazione’, non solo di matrice mafiosa (in particolare sul versante catanese, calabrese e messinese).
E nelle intese per dare forma a tale progetto sarebbero coinvolti ‘uomini cerniera’ tra crimine organizzato, eversione nera, ambienti deviati dei servizi di sicurezza e della massoneria, quali ad esempio Ciancimino Vito”. Il riferimento è alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino sul coinvolgimento del padre nelle vicende di Gladio, Ustica e del caso Moro.

La riunione di Enna
Nel documento Morosini si sofferma sulla riunione tenutasi ad Enna nel dicembre del 1991, nella quale Totò Riina, prevedendo un esito per lui sfavorevole del primo maxi-processo in Cassazione, traccia le “linee guida” di un piano di “destabilizzazione” della vita del Paese per “obiettivi eversivo-separatisti”. Per il gup le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Leonardo Messina, Filippo Malvagna e Giuseppe Pulvirenti, avallano la tesi che in un contesto sociale “esasperato dal terrore degli attentati e possibilmente domato da successivi eventi golpistici”, sarebbe stato possibile per Cosa Nostra “ricavare nuove chances di ‘trattativa’ miranti ad ottenere vantaggi anche sul piano della repressione penale per gli associati”. Lo stesso Malvagna, ricordando quanto dettogli dal Pulvirenti, riferisce della riunione di Enna del ‘91, alla presenza di Riina e Santapaola, degli “obiettivi concordati” e delle “decisioni assunte” anche “con riferimento alle modalità di realizzazione degli attentati (rivendicazione degli attentati doveva essere con la sigla della ‘Falange Armata’ nell’ambito di un più ampio disegno di destabilizzazione della vita del paese)”. Secondo Morosini questo progetto “andrebbe di pari passo con un secondo ‘piano’ di Cosa Nostra, più legato alle esigenze contingenti di fronteggiare la dura repressione da parte dello Stato iniziata già nel 1991”. E questo  programma mafioso “sarebbe finalizzato a indurre esponenti di vertice delle istituzioni italiane a ‘trattare’ con l’organizzazione in vista di una soluzione ‘a breve scadenza’ dei problemi legati alla giustizia penale e al trattamento penitenziario”. Un obiettivo “verosimilmente facilitato dal ‘capitale di contatti’ che, nel frattempo, maturano per via dell’attività finalizzata alla realizzazione del progetto più ambizioso e di lunga scadenza di tipo eversivo”.

Ciancimino, Bellini e Cattafi
Morosini sottolinea che tra le fonti di prova del procedimento sulla trattativa Stato-mafia, con riferimento all’obiettivo più contingente per Cosa Nostra, e cioè la realizzazione di gravissimi atti intimidatori finalizzati a indurre lo Stato a “trattare” sulla repressione penale, vi sono almeno tre soggetti “che offrono un contributo conoscitivo sulla base del ruolo, a loro dire svolto all’epoca dei fatti, di ‘anello di congiunzione’ tra Cosa Nostra ed esponenti delle istituzioni, in particolare ufficiali del ROS dei carabinieri”. “Pur trattandosi di soggetti con ‘carriere criminali’ diverse e di differente  estrazione delinquenziale, sociale e territoriale – specifica il gup –, si tratta di tre personaggi di ‘caratura criminale trasversale’, ossia di uomini a contatto non solo con l’organizzazione mafiosa ma anche con sodalizi collegati ai servizi di sicurezza, a logge massoniche e alla eversione di destra: Ciancimino Vito, Bellini Paolo, Cattafi Rosario Pio”. Nel decreto di rinvio a giudizio Morosini ribadisce che sulla base delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino e del materiale documentale da lui proposto in più tranches agli inquirenti, riconducibile a manoscritti e dattiloscritti del padre, è da Vito Ciancimino che principalmente scaturiscono le informazioni sui contatti con gli ufficiali del ROS dei carabinieri dal giugno al dicembre del 1992. Per focalizzare meglio i contatti ultradecennali di Vito Ciancimino con la ‘Ndrangheta, i “segmenti deviati” dei servizi di sicurezza e della massoneria, il gup rilegge le dichiarazioni di Cannella Tullio sul vertice di Lamezia Terme del 1991 per la costituzione delle Leghe meridionali e quelle di Massimo Ciancimino sui contatti del padre con la organizzazione segreta “Gladio”. Di seguito è il ruolo di Paolo Bellini a finire sotto la lente di ingrandimento di Morosini per la sua “intermediazione per una ‘trattativa’ condotta nel 1992 da alcuni esponenti di Cosa Nostra e i carabinieri per il recupero di opere d’arte in cambio di benefici penitenziari per alcuni capi mafia, proviene da ambienti della destra eversiva (Avanguardia Nazionale)”. Il profilo criminale di Bellini viene così ricordato nel documento partendo dal 1975, anno in cui lo stesso riveste il ruolo di esecutore materiale dell’omicidio dell’attivista di Lotta Continua Alceste Campanile. Viene ugualmente evidenziato come Bellini sia stato latitante per anni in Brasile grazie a coperture degli ambienti dell’estrema destra, per poi rientrare in Italia nel 1981 con il nome di Roberto Da Silva. Altrettanta attenzione viene riservata agli omicidi commessi per conto della ‘Ndrangheta da lui stesso confessati. Ultima, e non certo per importanza, è la figura di Rosario Pio Cattafi che ha riferito dei contatti del 1993 con il vice capo del DAP Francesco Di Maggio e con i R.O.S. “in vista della apertura del dialogo con Cosa Nostra sul 41 bis”. Morosini evidenzia come Cattafi sia un capo mafia di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), con alle spalle una militanza in Ordine Nuovo, già coinvolto in indagini dell’autorità giudiziaria milanese per reati di estorsione, porto di armi da guerra, unitamente al capo mafia catanese Nitto Santapaola e all’esponente di vertice della ‘Ndrangheta Cosimo Ruga.

Dall’omicidio Lima alle stragi del ‘93
Nel documento il gup si sofferma sulla “nuova linea strategica” di Cosa Nostra “alla ricerca di nuovi referenti negli ambienti politico istituzionali, inaugurata con l’omicidio Lima”. “Proprio con riguardo alle minacce dedotte nella contestazione (dal 1992 al 1994) e sui caratteri che le legherebbero tutte ad un unico disegno criminoso di ricatto allo Stato, a partire dall’omicidio Lima – specifica ancora Morosini –, vanno evidenziate le indicazioni ricavabili a pagina n.58 dell’informativa della DIA del 4 marzo 1994 a firma del Capo Reparto Investigazioni Giudiziarie dott. Pippo Micalizio”. Nell’informativa si registrava infatti che la Falange Armata aveva rivendicato l’omicidio Salvo Lima, e poi le stragi di Capaci e di via D’Amelio, gli attentati di via Fauro a Roma, di via dei Georgofili a Firenze, di San Giovanni in Laterano e via del Velabro a Roma e di via Palestro a Milano. Secondo il gup a questi attentati deve essere aggiunta la rivendicazione da parte della Falange Armata di un altro omicidio che, secondo l’accusa rientra nel progetto di minacce, ossia quello del maresciallo Guazzelli. Per Morosini “vanno evidenziate la fonti che attribuiscono sempre alla Falange Armata le minacce direttamente rivolte a ‘personaggi chiave’ delle istituzioni, all’epoca dei fatti, coinvolti a vario titolo nella repressione degli illeciti mafiosi, di cui si occupa il presente procedimento”. Si tratta delle sentenze del Tribunale di Roma del 17 marzo 1999 e della Corte di Appello di Roma del 20 novembre 2011 (divenute irrevocabili il 15 luglio 2002), emesse nel processo a carico di Carmelo Scalone, accusato di partecipazione all’associazione denominata Falange Armata, violenza e minaccia aggravata a pubblico ufficiale e attentato a organi costituzionali dello Stato. Secondo le sentenze, i soggetti minacciati sono: l’onorevole Vincenzo Scotti, ministro degli Interni, il 16 giugno 1992; l’on. Nicola Mancino, ministro degli Interni, il 19 novembre 1992, i giorni 1 e 21 aprile 1993, il 19 giugno 1993;  il dott. Vincenzo Parisi, capo della Polizia, il 19 novembre 1992,  il 1 aprile 1993 e il 19 giugno 1993; il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il giorno 1 aprile 1993 e i giorni 19 e 21 settembre 1993; il dott. Adalberto Capriotti, all’epoca direttore del DAP, il 16 settembre 1993; il dott. Francesco Di Maggio, all’epoca vicedirettore del DAP, il 16 settembre 1993; il Presidente del Senato Giovanni Spadolini, il 21 aprile 1993. “Va ricordato, sempre richiamando le suddette sentenze relative all’imputato Scarano – sottolinea il gup –, che la Falange Armata, il 14 giugno 1993, ebbe modo di manifestare la sua soddisfazione per la nomina del dott. Adalberto Capriotti come direttore del DAP, al posto del dott. Nicolò Amato, considerando la sostituzione di quest’ultimo come una vittoria della stessa Falange Armata. Le medesime sentenze dell’autorità giudiziaria capitolina ricordano che le rivendicazioni da parte della ‘Falange Armata’ sono state  spesso utilizzata in Italia per assecondare piani eversivi orditi da sodalizi di vario genere, in una prospettiva di ‘destabilizzazione’ della vita politico-istituzionale italiana”. Quella stessa “prospettiva di destabilizzazione” della vita politico-istituzionale del nostro Paese di cui si erano già occupati Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte, Nico Gozzo ed Antonio Ingroia nell’inchiesta palermitana denominata “Sistemi criminali”. Un’indagine che all’epoca si poteva definire decisamente “pionieristica” e che oggi finalmente vede la sua naturale evoluzione nel processo allo Stato-mafia.

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