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ingroia-napolitanoIngroia: “E' una sentenza politica, sono rammaricato”
di Aaron Pettinari - 5 dicembre 2012
Erano circa le 20 quando la Corte Costituzionale, dopo quattro ore di camera di consiglio, ha espresso il proprio verdetto mettendo la parola fine sul conflitto d'attribuzione sollevato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, contro la procura di Palermo. Lo ha fatto trasmettendo un comunicato di poche righe che basta a porre una pietra tombale sulla questione. Il “casus belli” era rappresentato dalle intercettazioni indirette di alcune conversazioni telefoniche tra il capo dello Stato e l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, sottoposto a sorveglianza dai pm siciliani nell'ambito dell'indagine sulla trattativa Stato-mafia. Intercettazioni che ora andranno distrutte.

"La Corte costituzionale - informa la Consulta - in accoglimento del ricorso per conflitto proposto dal Presidente della Repubblica ha dichiarato che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, captate nell'ambito del procedimento penale n. 11609/08 e neppure spettava di omettere di chiederne al giudice l'immediata distruzione ai sensi dell'articolo 271, 3° comma, c.p.p. e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti". In attesa delle motivazioni della sentenza, che verranno presumibilmente depositate il prossimo gennaio, l'unica indiscrezione trapelata è quella che i giudici hanno affrontato a lungo la questione dell’ammissibilità o meno del ricorso del Colle per via di una discrasia tra la prima e la seconda memoria dell’Avvocatura. La prima dove si dice che i pm dovevano distruggere “direttamente” le telefonate, la seconda dove si afferma che i pm dovevano chiedere al gip di farlo.
La sentenza non è stata commentata ufficialmente dalla Procura di Palermo. Il capo dell’ufficio, Francesco Messineo, presente alla lettura della sentenza, ha detto: “Leggerò il provvedimento, non ritengo di fare commenti, allo stato”. Da Palermo è intervenuto il pm Nino Di Matteo: “Vado avanti nel mio lavoro con la coscienza tranquilla ritenendo di aver sempre agito nel pieno rispetto della legge e della Costituzione”.  
L'ex procuratore aggiunto di Palermo invece, intervistato da Corriere della Sera, Repubblica, Messaggero e Fatto Quotidiano replica duramente dal Guatemala, dove svolge un'incarico Onu: “Devo ricredermi su quanto pensai quest'estate leggendo le considerazioni di Gustavo Zagrebelsky, il quale riteneva che la sentenza dei suoi ex colleghi della Consulta fosse già scritta. Credevo che esagerasse, invece aveva ragione: per ragioni politiche prima ancora giuridiche, non c'era altra via d'uscita che dare ragione al presidente della Repubblica”. “Le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto - ha aggiunto Ingroia - La sentenza della Corte costituzionale rappresenta un brusco arretramento rispetto al principio di uguaglianza e all'equilibrio fra i poteri dello Stato. Penso che i giudici avessero l'esigenza di dare ragione al capo dello Stato. Aspetterò di leggere le motivazioni della sentenza per capire se volevano anche dare torto alla Procura di Palermo ad ogni costo ma dalle righe diffuse fin qui si capisce che dovevano sostenere in tutto la posizione del Quirinale. Poi magari le motivazioni mi convinceranno del contrario, ma ora non posso che esprimere queste valutazioni”. “La scelta del presidente della Repubblica di sollevare il conflitto di attribuzioni è stata dannosa  per l'immagine delle istituzioni italiane nel suo complesso – prosegue l'ex pm di Palermo - Credo che abbia sbagliato a presentare il conflitto perché ha messo con le spalle al muro la Consulta. Siamo cornuti e mazziati, per usare termini meno giuridici e più popolari. Noi abbiamo fatto di tutto perché di quelle conversazioni non uscisse nemmeno una riga, e infatti non è uscita nemmeno una riga. Proprio perché avevamo a cuore la riservatezza del presidente”. “Quello che fa più rabbia – aggiugne - è che la Corte non si è accontentata di dar ragione al Quirinale ma ha voluto dare anche una bacchettata alla procura di Palermo, immeritata almeno sulle procedure, vista la nostra prudenza", prosegue il magistrato, secondo cui "é stato il clima politico complessivo a determinare la sentenza. Sono convinto che se noi avessimo fatto quello che oggi sostiene la Corte, e cioé trasmettere le telefonate al giudice chiedendo la distruzione delle conversazioni senza contraddittorio con le parti, il giudice avrebbe ordinato il deposito e il contraddittorio con tutte le parti del procedimento, facendole inevitabilmente diventare pubbliche. Anche per questo - spiega Ingroia - noi non abbiamo preso quella strada, preoccupandoci di preservare al massimo la riservatezza delle conversazioni del presidente. Questa sentenza è quindi paradossale perché suggerisce una prassi che ci obbliga di fatto a rendere pubbliche le intercettazioni, dopo averci esposto all'onta di un conflitto di attribuzione”.

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