di Lorenzo Baldo - 3 dicembre 2012
Palermo. «Fu proprio sotto la gestione di Francesco Di Maggio che ai primi giorni di novembre 1993, infischiandosene delle preoccupate segnalazioni dei procuratori aggiunti di Palermo Aliquò e Croce, il Dap fece scadere i famosi 334 41bis, a tutto beneficio di importanti esponenti di Cosa Nostra». Era il 25 settembre dello scorso anno quando l’avvocato Fabio Repici scriveva una sorta di recensione del libro “Ricatto allo Stato” scritto dall’ex capo della Direzione generale dei detenuti e del trattamento, Sebastiano Ardita.
Nell’articolo in questione l’avv. Repici riportava tra l’altro un commento dello stesso Ardita. «“Il modo di procedere pragmatico e spedito della nuova gestione del Dap lasciava intendere che dietro quella scelta vi fosse una copertura istituzionale forte … ma probabilmente ispirata da un suggeritore tecnico per una scelta pragmatica di gestione della crisi”. La scelta pragmatica venne fatta dal Dap di Di Maggio sul sangue delle vittime delle stragi. Da quel momento finì lo stragismo mafioso ma si pose anche una pietra tombale sulla verità delle indecenti interlocuzioni fra Stato e Cosa Nostra». Con dovizia di particolari Repici spiegava che su questo specifico argomento il libro di Ardita andava letto «insieme all’informativa del Gico di Firenze del 3 aprile 1996 su un uomo che pure è stato al centro delle indagini (seppure poi archiviato) sui mandanti esterni delle stragi di Capaci e via D’Amelio, il pregiudicato barcellonese Rosario Cattafi, da molti collaboratori di giustizia indicato come trait d’union fra Cosa Nostra e servizi segreti». «In quell’atto investigativo – sottolineava il legale messinese – è documentata la vicinanza fra Francesco Di Maggio e Rosario Cattafi. Ma non c’è solo questo. Dal libro di Ardita apprendiamo che in quel tornante della storia d’Italia andarono via dal Dap numerosi magistrati (per incompatibilità con la gestione Di Maggio o per altre ragioni) e ne rimasero in servizio solo tre, il più importante dei quali, a capo dell’ufficio detenuti, fu il barcellonese Filippo Bucalo. Il Gico di Firenze scoprì che nell’estate 1993 Rosario Cattafi ebbe costanti contatti telefonici con Filippo Bucalo e col fratello del dirigente del Dap». «Cattafi l’8 ottobre 1993 fu arrestato su richiesta della Procura di Firenze per le vicende dell’autoparco della mafia milanese. Così oggi sappiamo che quando il Dap di Di Maggio e di Bucalo fece decadere il 41bis per 334 mafiosi siciliani, all’interno delle carceri, da detenuto, c’era un amico di Di Maggio e Bucalo, che ben poteva recepire le reazioni dei capi di Cosa Nostra in quel momento detenuti. Prendendo in prestito le parole di Ardita, sono “tutti profili che non saranno sfuggiti ai magistrati che conducono le indagini”». Parole chiare, nette, basate su dati oggettivi. L’eco di quelle dichiarazioni risuona oggi nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone all’udienza del processo Mori-Obinu. Teste d’eccezione proprio quel Rosario Pio Cattafi che tra frasi sibilline e ambigue allusioni cita volutamente questa recensione accusando l’avvocato Repici di aver dato così un impulso alle indagini nei suoi confronti diventate secondo lui una vera e propria “persecuzione”. Implicitamente anche il dott. Ardita viene inglobato nel pericoloso retropensiero di questo grigio personaggio sulle cui spalle gravano pesantissime indagini legate alla trattativa Stato-mafia. In aula c’è anche Sonia Alfano, al di là di essere la presidente della commissione antimafia europea è soprattutto la figlia del giornalista ucciso dalla mafia, Beppe Alfano. Da tanti anni denuncia i contatti mafiosi della borghesia di Barcellona Pozzo di Gotto, quella borghesia che ha visto tra le sue fila proprio l’ex avvocato Cattafi che oggi depone davanti a lei. Durante l’udienza Cattafi entra ed esce dalle sue vicende processuali senza cedere minimamente alla possibilità di eventuali rivelazioni sul suo ruolo di tramite tra i poteri forti e Cosa Nostra. Ad un certo punto arriva persino a risentirsi per un’osservazione del legale del generale Mori al quale lancia di seguito una sorta di avvertimento sulla possibilità di ricordarsi della sua presenza ad una riunione avvenuta a Messina insieme a Francesco Di Maggio ed alcuni rappresentanti del Ros. L’episodio era già stato ricostruito in alcuni interrogatori con la procura di Messina e con quella di Palermo. Nel verbale del 17 ottobre 2012 Cattafi raccontava ai pm palermitani di un incontro avvenuto tra la fine del mese di maggio e i primi di giugno del 1993 al bar Doddis di Messina. «In questa riunione avevano deciso di prendere la cosa in mano – aveva raccontato ai magistrati –, di essere operativi per quanto riguarda tutto questo schifo che c’era per… di queste stragi che erano accadute…». In quei verbali era emerso anche l’incontro con il mafioso Salvatore Cuscunà, detto “Turi Buatta”, finalizzato ad una vera e propria trattativa. «Preciso che avrei dovuto contattare l’avvocato di Cuscunà – aveva specificato Cattafi – al fine di veicolare al Santapaola (Nitto, potente boss catanese, ndr) richiesta di bloccare le stragi in cambio di benefici in quel momento non meglio precisati». In quei verbali Cattafi aveva asserito che Di Maggio gli aveva detto che bisognava “portare avanti una trattativa”. «Di Maggio disse: “Dobbiamo bloccarli questi porci” (…) egli si riferiva al fatto che voleva disinnescare e bloccare le stragi. Sempre in quel frangente, Di Maggio mi disse che bisognava mandare un messaggio a Santapaola e che “bisognava smetterla con questo casino” e che in cambio c'era la disponibilità da “parte nostra”, ossia da parte delle istituzioni, a concedere benefici». Nel ricordare l’incontro al bar Doddis Rosario Cattafi aveva evidenziato ai pm che lo interrogavano di aver trovato Francesco Di Maggio da solo al bar. «Ricordo che nel corso del colloquio Di Maggio fece riferimento ad una riunione che vi era stata poco prima presso il vicino comando dei Carabinieri adiacente alla Questura di Messina». Uno dei punti salienti dei verbali di interrogatorio di Cattafi si può ritrovare quando lo stesso ribadisce che Di maggio gli aveva detto «che era stato messo “in quel posto”, alludendo al Dap, proprio per avviare quei contatti». Secondo Cattafi Di Maggio gli aveva comunicato «che avevano deciso di essere operativi, riferendosi anche ai Carabinieri del Ros». «Di Maggio mi precisò che la risposta, a seguito del contatto con l’avvocato di Cuscunà, avrei dovuto comunicargliela al Ministero». Nei verbali Cattafi raccontava ai magistrati che nel corso del colloquio Di Maggio aveva ricevuto una telefonata, «precisando che di li a poco sarebbero giunti i Ros, cosa che effettivamente avvenne in quanto al bar giunsero cinque/sei persone, alcune delle quali in divisa ed altre in borghese». Ecco allora che si era entrati nel vivo del racconto. «Ricordo ancora che Di Maggio mi presentò nominativamente tutti i carabinieri presenti. Anzi aggiunse che per le eventuali esigenze avrei dovuto contattare due di essi». Oggi però, nella grade aula che fu del Maxiprocesso, Cattafi non indica nomi e cognomi in quanto le sue condizioni «non sono agevoli» e si limita a lanciare un segnale obliquo affermando che il generale Mori l’ha visto tante volte sui giornali e che in ipotesi potrebbe anche indicarlo tra gli ufficiali del Ros presenti a quella riunione: «potrei anche riferirmi a quel verbale nel quale dicevo che c’era uno bassino che raccontava barzellette e potrei riconoscerlo in Mori… ma non ne sono sicuro…», ma al momento ribadisce di non avere la serenità per farlo e preferisce quindi aspettare di «essere certo». «Non ho lo stato di serenità per ricordare con certezza i nominativi dei due predetti Carabinieri – aveva messo precedentemente a verbale Cattafi –, anche se ritengo di averli annotati, all’epoca, in qualche agenda. In ogni caso mi sarei dovuto presentare a nome del dr. Di Maggio». Nel mezzo dell’udienza irrompe infine la figura del magistrato brianzolo Olindo Canali, per anni alla procura di Barcellona Pozzo di Gotto, condannato in primo grado per falsa testimonianza in favore del boss barcellonese, Giuseppe Gullotti, attualmente in servizio presso la quinta sezione penale del tribunale di Milano. Cattafi ribadisce di avere a disposizione un nastro in cui è registrata una conversazione con il dott. Canali. «Canali conosceva i miei rapporti con il dott. Di Maggio anche durante il mio periodo di detenzione presso il carcere di Sollicciano a Firenze». Il rapporto tra Canali e Cattafi è decisamente particolare tanto che una volta il magistrato gli passa il proprio telefono cellulare per metterlo in contatto con Francesco Di Maggio. «Ricordo di un interrogatorio di Canali a Sollicciano 10 giorni dopo il mio arresto – aveva specificato Cattafi ad ottobre di quest’anno –. A margine di tale atto istruttorio, Canali telefonò a Di Maggio che mi fu passato al telefono. I contatti telefonici dal carcere di Sollicciano con Di Maggio al Ministero sono stati due o tre. In uno di questi contatti Di Maggio mi propose il trasferimento presso la Casa Circondariale di San Vittore a Milano per sottopormi ad un intervento chirurgico. In tale occasione avrei dovuto contattare il Cuscunà, cosa che effettivamente è avvenuta». Per il resto Rosario Pio Cattafi ripercorre fedelmente il ruolo di chi ha maneggiato un potere ibrido e sa destreggiarsi tra minacce e ricatti incrociati. Sul suo ruolo all’interno della trattativa Stato-mafia ci sarà ancora da scandagliare. Nonostante il regime del 41bis al quale è sottoposto, in una pausa dell’udienza, riesce perfino a dialogare con la propria compagna (di professione avvocato, ma presente in aula non in veste di legale del teste assistito in quanto Rosario Cattafi veniva difeso dall’avvocato Giovanbattista Freni). Il rancore di Cattafi contro il Ros si intreccia con determinati episodi legati al mistero della latitanza di Nitto Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto, la sua figura richiama alla memoria quelle zone d’ombra che tuttavia permangono sull’omicidio di Beppe Alfano, ombre che si allungano sul circolo paramassonico della Corda Fratres e che lambiscono il procuratore generale di Messina, Franco Cassata, attualmente sotto processo per diffamazione ai danni di Adolfo Parmaliana. Udienza rinviata all’8 gennaio 2013, ventesimo anniversario dell’omicidio di Beppe Alfano.
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