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dellutri-berlusconi-big0La sentenza di Cassazione conferma i pm: il senatore mediatore tra Cosa e la Fininvest
di Monica Centofante - 25 aprile 2012
E’ un tuffo nel passato la sentenza con cui la Cassazione ha annullato con rinvio, lo scorso 9 marzo, il verdetto d’appello che aveva condannato il senatore Marcello Dell’Utri a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.

Le motivazioni di quella decisione, depositate ieri, hanno per un attimo riportato indietro le lancette del tempo, a quando la procura di Palermo chiedeva la condanna dell’imputato (poi ottenuta) perché considerato “ambasciatore” degli interessi di Cosa Nostra presso l’impero di Silvio Berlusconi. A quando la procura di Palermo sosteneva che l’allora imprenditore di Milano 2 non solo pagò a una delle organizzazioni criminali più potenti del mondo cospicue somme di denaro per garantire a se stesso e ai suoi familiari la sicurezza minacciata, negli anni Settanta, dalla cosiddetta “Anonima sequestri”. Ma stabilì con i boss un rapporto di do ut des dietro al quale potrebbe nascondersi il fiume di denaro di provenienza mai chiarita entrato improvvisamente nelle casse delle aziende dell’imprenditore che diede vita all’imponente impero Fininvest.
Tutto allora partiva da un nome: Vittorio Mangano, un semplice “stalliere”, come lo definivano gli stessi Dell’Utri, Berlusconi e compagnia cantante; un “esponente di primo piano delle cosche mafiose palermitane”, come provato nelle aule di giustizia. E cosa ci facesse un boss alle dipendenze del Cavaliere, nella villa di Arcore, se lo chiedevano un po’ tutti nella Brianza e dintorni, già in quei lontani anni Settanta, tanto che lo stesso Mangano avrebbe deciso un giorno di andarsene per non infangare ulteriormente l’immagine dell’imprenditore.
La verità a volte è a portata di mano, chiara come il sole. Logica. Ma nelle aule di Tribunale, ovviamente, la logica non basta e la giustizia deve fare il suo corso. E quello del processo Dell’Utri è un corso lungo e tortuoso che dopo 16 anni ritorna all’origine. Almeno in parte.
Il senatore Marcello Dell’Utri è stato il “mediatore” dell’accordo protettivo tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi “in posizione di vittima”, ha scritto la Suprema Corte nelle 146 pagine depositate ieri, dando pieno credito alle “convergenti dichiarazioni di più collaboratori a vario titolo gravitanti sul o nel sodalizio mafioso Cosa nostra”. Tra questi Galliano, Cucuzza e Di Carlo, che raccontò dell’incontro negli uffici della Edilnord tra il costruttore di Milano 2, l’amico Marcello e il boss Stefano Bontade, all’epoca al vertice del triumvirato che reggeva l’organizzazione mafiosa siciliana. Dalle loro rilevazioni, “approfonditamente e congruamente analizzate dal punto di vista dell'attendibilità soggettiva nonché sul piano della idoneità a riscontrarsi reciprocamente”, spiegano i giudici, risulta confermata l’assunzione di Mangano ad Arcore “come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di Cosa nostra e circa il tema della non gratuità dell'accordo protettivo, in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte  di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l'esecuzione di quell'accordo, essendosi posto anche come garante del risultato”.
Tramite dell’accordo Marcello Dell’Utri, “che, di quella assunzione, è stato l'artefice grazie anche all'impegno specifico profuso da Cinà”. Un dato di fatto perfino indipendente “dalle ricostruzioni dei cosiddetti pentiti”. Mentre è indubbio “e costituisce espressione del concorso esterno da parte dell'imputato nell'associazione criminale Cosa nostra il comportamento consistito nell'aver favorito e determinato avvalendosi dei rapporti personali di cui già a Palermo godeva con i boss e di una amicizia in particolare che gli aveva consentito di caldeggiare la propria iniziativa con speciale efficacia presso quelli -la realizzazione di un incontro materiale e del correlato accordo di reciproco interesse tra i boss mafiosi- nella loro posizione rappresentativa- e l'imprenditore amico Berlusconi”.
Ma la sentenza non dice “solo” questo. Dice, in realtà, molto di più: che quel rapporto tra i boss e Silvio Berlusconi non era stato stabilito dall’imprenditore soltanto per tutelare se stesso e la propria famiglia, ma anche per realizzare “evidenti risultati di arricchimento”.
La stessa considerazione che fece la procura di Palermo, come ha ricordato a Il Fatto Quotidiano Antonio Ingroia, che di quel processo rappresentava l’accusa insieme al collega Nico Gozzo. Considerazione effettuata “sulla base di indizi e non certo per stravaganza. Anche se all’epoca la valutazione fu che non ci fossero elementi sufficienti per processare Berlusconi”. Mentre Berlusconi si rifiutò sempre, campando continue scuse, di farsi interrogare per chiarire una volta per tutte la natura di quei rapporti con i boss.

La sentenza della Suprema Corte quindi, quella che lo scorso 9 marzo era stata frettolosamente spacciata per una sorta di assoluzione per il senatore Dell’Utri, risulta essere perfino più dura della precedente sentenza d’appello. Anche se le affermazioni dei giudici che ritengono provato il ruolo di mediatore di Marcello Dell’Utri appaiono in contrasto con l’annullamento di quel verdetto e il rinvio al secondo grado. Perché, scrivono, per gli anni che vanno dal 1977 al 1982, periodo durante il quale Dell'Utri non lavorò più per Berlusconi ma venne assunto “alle dipendenze di imprenditore diverso e autonomo, il Rapisarda”, c’è “un totale vuoto argomentativo per quanto concerne la possibile incidenza di tale allontanamento sulla permanenza del reato già commesso”.
In sostanza, secondo i giudici della Cassazione, il concorso esterno di Marcello Dell’Utri esiste ma non è stato sufficientemente provato dai giudici di Palermo. E infatti, sottolineano, “è probatoriamente dimostrato che Marcello Dell'Utri ha tenuto un comportamento di rafforzamento dell'associazione mafiosa fino ad una certa data” e sarà compito dei nuovi giudici d’appello “esaminare e motivare se il concorso esterno sia oggettivamente e soggettivamente configurabile a carico di Dell'Utri, anche nel periodo di assenza dell'imputato dall'area imprenditoriale Fininvest e società collegate" e in quello successivo.
Quei nuovi giudici ripercorreranno quindi gli anni in cui Marcello Dell’Utri venne assunto alla corte di Rapisarda, soggetto in costante relazione con i boss, grazie all’intervento di Gaetano Cinà, come sostenne lo stesso Rapisarda. E il periodo successivo, quando l’attuale senatore di Forza Italia tornò da Berlusconi e fu intercettato diverse volte dagli inquirenti, negli anni Novanta, mentre si intratteneva in conversazioni amichevoli con lo stesso Cinà. Il mafioso che per conto di Cosa Nostra non mancava di far recapitare al Cavaliere – perché? - enormi cassate siciliane come regalo di Natale.
E ciò fino ai primi anni Novanta quando nacque Forza Italia. Ma i giudici di Cassazione oggi sottolineano: se Berlusconi pagò “in stato di necessità” ciò “non implica necessariamente che egli abbia mantenuto inalterato nel tempo e nella sostanza un rapporto di gestione dei possibili favori che la mafia avrebbe potuto restituire nel periodo di formazione di Forza Italia”.
Vedremo. La partita è ancora aperta. E se sarà provato che il reato di concorso esterno potrà essere raffigurato anche quando Dell’Utri lasciò la Fininvest e anche dopo allora i termini di prescrizione attualmente previsti per il 2014 si allungherebbero.
E cadrebbe nel vuoto quanto sottolineato ieri dall’avvocato Massimo Krogh, difensore in Cassazione di Dell’Utri: “Tutto quello che la Cassazione dice del periodo precedente al 1978 non conta, ormai è prescritto”.
Se questo dovesse comunque accadere, se dovesse arrivare la prescrizione, nelle pagine della storia quei rapporti, mantenuti almeno fino al 1978, rimarrebbero scritti, con inchiostro indelebile, nero su bianco. Come già avvenuto in precedenza per Giulio Andreotti.
Anche per questo ieri Antonio Ingroia, soddisfatto del risultato fino ad ora ottenuto con la sentenza di Cassazione, si è dichiarato “sconfitto come cittadino per una vicenda giudiziaria importantissima che sembra senza fine”. E ha concluso: “È l’Italia che è così, un Paese che ha paura delle grandi verità”.

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