di Anna Petrozzi - 29 ottobre 2012
Chissà cosa avrebbe scritto Sciascia se questa mattina fosse stato al "Pagliarelli" di Palermo per assistere all'udienza preliminare del processo sulla cosiddetta "trattativa" tra Stato e mafia. Forse, scorrendo la lista degli imputati comparsi davanti al gup Pier Giorgio Morosini, avrebbe messo in discussione l'ineluttabilità di quella sua storica convinzione secondo la quale lo Stato non può processare se stesso.
È molto presto ovviamente per parlare di rinvio a giudizio, la battaglia di eccezioni e di richieste di stralci per cercare in ogni modo di strappare la competenza del dibattimento alla procura di Palermo o di facilitare le varie posizioni non è che all'inizio, ma anche Sciascia alla fine dovrebbe ammettere che almeno una parte dello Stato ha provato a cercare la verità in tutte le direzioni, anche a costo di trascinare sul banco degli imputati ex ministri, un senatore in carica e alti ufficiali dei carabinieri assieme ai capi mafiosi e al figlio di uno dei protagonisti del patto scellerato di quel tempo.
La portata storica di questo evento è già stata segnata da tutte le reazioni che lo hanno preceduto, a cominciare dal conflitto di attribuzioni sollevato dal capo dello Stato relativamente alle intercettazioni tra il senatore Mancino e il presidente Napolitano e a finire con la guerriglia mediatica scatenata contro i magistrati titolari dell'inchiesta.
L'accusa di attentato a "corpo politico dello Stato" ha in effetti ben pochi precedenti e presuppone, secondo l'accusa, che Cosa Nostra, con l'omicidio Lima, abbia dato il via ad un'escalation minacciosa inducendo una parte dello stato a scendere a patti. L'obiettivo finale della mafia Totò Riina e soci era di ottenere una serie di benefici ma soprattutto di rinegoziare il patto di convivenza di cui aveva goduto dagli albori della Repubblica fino all'avvento del maxi-processo.
Lo stato trattativista invece avrebbe avuto diverse finalità a seconda dei personaggi coinvolti: salvarsi la pelle da morte certa per alcuni e riallacciare quella proficua alleanza con la mafia siciliana sicura portatrice di voti e guadagni, nonché utile manodopera per i lavoretti più fastidiosi.
La procura di Palermo si sente certa di avere riscontrato un numero di prove sufficienti per dimostrare chi, quando e perché nel delicato quadro dei giochi politici avrebbe deciso che scendere a patti con Cosa Nostra era la scelta più giusta per ripristinare l'ordine costituito seppur con nuovi volti.
Insomma sotto processo va un metodo di gestione del potere che viene ritenuto dai magistrati "eversivo" e criminale perché - spesso lo si dimentica - ha determinato la morte di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, degli uomini delle forze dell'ordine che li proteggevano e dei morti innocenti di Firenze e Milano.
Dei "pezzi grossi" chiamati a rispondere delle loro scelte davanti a tutti gli italiani oggi non c'era nessuno. Tranne il senatore Mancino accusato solo di falsa testimonianza anche se il suo ruolo nell'intera vicenda appare tutt'altro che chiaro.
Fuori dall'aula, in un clima insolitamente gelido per la Sicilia, c'erano i cittadini, le "agende rosse" che rappresentano più di qualunque altra entità sociale il "corpo politico dello Stato", la vera parte lesa, oltre ai familiari delle vittime, di tutta questa storia sordida di compromessi e vigliaccherie.
A causa di alcuni "rilievi" sollevati dalle parti - ha spiegato il Gip Morosini - non è stato consentito loro di presenziare in aula, così come ai giornalisti che mai come in questo caso dovrebbero essere gli occhi e le orecchie di quegli italiani onesti che pretendono di conoscere la verità e di venire così risarciti della perdita inestimabile di uomini come Falcone e Borsellino, di loro concittadini inermi e anche dei danni al nostro patrimonio culturale.
Alla fine lo Stato tutto avrà il coraggio di processare se stesso?
Questo è il momento perfetto per dimostrarlo.
Foto © ANSA
ARTICOLI CORRELATI
Il primo passo del processo del secolo
Trattativa Stato-mafia. Udienza rinviata al 15 novembre