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strage-capaci-big0di Nicola Biondo - 24 maggio 2012
Moventi esterni e misteriose consulenze, versioni consolidate rimesse in discussione, patti, trattative e sondaggi. Vent’anni dopo Capaci la macchina giudiziaria sull’asse Palermo-Caltanissetta è ancora in moto. Fu solo ed esclusivamente Cosa nostra a scatenare l’inferno delle stragi, del ricatto allo Stato? Non c’è un solo investigatore siciliano che con assoluta certezza risponda positivamente. La verità sulla morte di Giovanni Falcone è ancora parziale. Lo ammette lo stesso procuratore nisseno Sergio Lari: “Ci sono indizi che fanno sospettare una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e soggetti esterni. Ad esempio, soggetti esperti nell'uso di esplosivi”.

A rimettere tutto in gioco c’è ancora una volta, come per via D’Amelio, il racconto dell’ultimo importante collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza. Tre i punti che hanno riaperto l’inchiesta nissena sul 23 maggio 1992 e che si incastrano con quella parallela sulla trattativa Stato-mafia che la Procura di Palermo sta per chiudere. Il primo: l’esplosivo usato. Dice Spatuzza il 3 luglio 2008: “Su ordine dei Graviano ho recuperato centinaia di chili di esplosivo. Un mese dopo avvenne Capaci”.
Una versione che entra in rotta di collisione con quella di Giovanni Brusca – segnala la Procura nissena diretta da Sergio Lari – il principale pentito autore della strage. Il boia di Capaci ha detto davvero tutta la verità? Aggiunge Lari: “Far saltare l'autostrada col tritolo non era impresa facile. E l'artificiere di Cosa nostra, Sebastiano Rampulla, proprio quel giorno non presenziò. E’ questo lo snodo che “fa sospettare il possibile ruolo di soggetti esterni”. Ancora Spatuzza ( 3 luglio 2008), e siamo al secondo indizio, riporta un colloquio in cui si staglia l’ombra di convergenze esterne nella strage: “Filippo Graviano mi disse, per noi Falcone è stato più che giustificato, se siamo protagonisti o non protagonisti, approviamo quello che è stato fatto”. Approvare, essere o meno protagonisti di quell’eccidio: parole che ai magistrati ricordano la voce di un altro collaboratore, Nino Giuffré. “Prima delle stragi Provenzano fece un sondaggio tra politici, imprenditori e massoni. Il risultato fu positivo e si diede il via alle stragi”.  E siamo al terzo punto. Dice Spatuzza il 23 settembre 2010 che “Falcone e Borsellino dovevano essere attentati terra-terra, non eclatanti, è allora che nasce un’organizzazione terroristico-mafiosa…”. Le indagini in corso focalizzano il periodo in cui Cosa nostra si trasforma in organizzazione eversiva: sono le due settimane tra febbraio e marzo 1992. E’ allora che Riina – secondo Spatuzza – richiama i killer che a Roma dovevano uccidere con armi leggere Giovanni Falcone. E’ la fase due del progetto di attacco allo Stato: dopo aver scelto gli obiettivi si decide la sconvolgente messa in scena della strage di Capaci. Uccidere il giudice in Sicilia, e in quel modo, significa mettere una firma chiara a tutti: è la mafia. Chi e cosa fa cambiare idea a Totò Riina? Questo l’interrogativo principale dell’inchiesta nissena.  Riina decide tutto con l’apporto dei suoi “colonnelli” così li definisce Spatuzza: i fratelli Graviano e il giovane Matteo Messina Denaro. E’ questo “il cerchio magico – così lo definisce un investigatore – che decise anche su input esterni la deriva stragista”, il direttorio che di fatto “sciolse l’organizzazione, imponendo al popolo di Cosa nostra la scelta delle stragi con la conseguente durissima repressione”. Ed è su Matteo Messina Denaro, mai condannato per le stragi del ’92 e tutt’ora latitante, che si sono accesi i riflettori della nuova inchiesta.  Anche alla Procura di Palermo che si accinge a chiudere l’indagine sulla trattativa Stato-mafia, la domanda è la stessa: fu solo mafia?  “Un sistema criminale – dice il procuratore aggiunto Antonio Ingroia – ha voluto le stragi con la mafia come braccio armato”. La trattativa tra boss e pezzi dello Stato, secondo le indagini più recenti, partì prima di Capaci, anzi fu la trattativa a imporre la drammatica messa in scena di quella strage. Perché Falcone – dicono gli investigatori - doveva morire in Sicilia, nel modo più eclatante possibile e con una firma riconoscibile.
Cambia così ancora una volta la geografia e il contesto temporale della trattativa. Tutto avrebbe avuto inizio ben prima di Capaci, prima dell’omicidio di Salvo Lima, prima ancora della sentenza definitiva sul maxiprocesso.
Il sistema criminale, per la procura di Palermo, è il contesto in cui nasce la trattativa e dove, dopo la caduta del Muro di Berlino, nascono strategie imprenditoriali, finanziarie, politiche e criminali. E’ il “gioco grande” che Giovanni Falcone provò per una vita a decrittare.
Un war-game con una costante, la presenza di uomini di frontiera, manovali dei servizi, maestri dell’infiltrazione. Alcuni di questi appaiono nel rebus delle stragi e hanno un identico pedigree: sono neofascisti al soldo di intelligence italiane e straniere.
Il primo è Elio Ciolini: nel marzo del ’92 avverte i Servizi dell’imminente stagione delle stragi. Come faceva a sapere?
Il secondo è Paolo Bellini. Entra in contatto con uno degli attentatori di Capaci, Nino Gioé. “Mi raccontava di Capaci e ripeteva: “ci hanno consumati”, “ci hanno usati”. Nell’agosto del 1992 Bellini riceve da Brusca e Gioé una versione minore del papello, una lista di 5 mafiosi da mettere agli arresti domiciliari. Il “papellino” – così lo definirà il procuratore Pietro Grasso – scompare, dopo essere finito nelle mani dei vertici del Ros, gli stessi uomini che in quel periodo incontravano Vito Ciancimino, oggi indagati per la trattativa. Chi lo infiltra nel cuore di Cosa nostra?
Il terzo neofascista al soldo dei Servizi è una figura mai comparsa nelle indagini sulle stragi mafiose, eppure anche lui lavora nel contesto del sistema criminale. Si chiama Guelfo Osmani, nome in codice Raffaello. La mattina del 28 luglio 1993, a meno di otto ore dalle bombe di Milano e Roma, la sala ascolto della Questura di Bologna lo intercetta con un agente di polizia di cui Osmani è informatore. “Il messaggio è chiarissimo, c’è un avvertimento … l’avviso è questo: ve la finite con queste indagini. Può essere che io ci sono arrivato chi è”.
“Si, ma non dirlo per telefono” – taglia corto il poliziotto.
Quale verità conosce Osmani? Quali altri moventi dietro le stragi?
E quante trattative si aprirono sul sangue di magistrati, poliziotti e di inermi cittadini?
Dopo venti anni, decine di ergastoli, due inchieste ancora aperte, mille ipotesi e sospetti, il cratere di Capaci è ancora lì, profondo e oscuro, brandelli di verità e grumi indicibili galleggiano ancora in superficie.

Tratto da: L'Unità

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