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lettera-41bis-bigdi Anna Petrozzi - 18 novembre 2011
Che attorno al 41bis, il super carcere, si sia dispiegato uno dei vari capitoli della trattativa tra mafia e stato pare ormai non esserci più alcun ragionevole dubbio.
Il carcere duro imposto dal decreto Martelli all’indomani di via D’Amelio non ha avuto soltanto il valore di una reazione importante da parte dello Stato, seppur come la classica lacrima di coccodrillo, ma ha significato anche e soprattutto un affronto per i mafiosi abituati all’impunità e alle carceri trasformate in “grand hotel” dove si festeggiavano le stragi con lo champagne.
L’isolamento a Pianosa e all’Asinara aveva davvero avuto il potere, in quella torrida e spaventosa estate del ’92, di spezzare quel controllo egemonico esercitato dai mafiosi anche da dietro le sbarre e di metterli all’angolo. Molti infatti avevano ceduto, convinti che fosse arrivata la fine per l’epoca d’oro e di sangue di Cosa Nostra che si era trasformata in associazione terroristico-eversiva convinta di incassare la rinegoziazione di quel patto che la lega allo Stato sin dalla strage di Portella della Ginestra.
Ma per i mafiosi più irriducibili, per i capi, il cui carisma vale più di ogni cosa, quell’affronto non era accettabile sotto nessun profilo, tanto meno quello politico. Non si fecero scrupolo infatti di chiederne conto e ragione direttamente al capo dello Stato, al tempo il neoeletto Oscar Luigi Scalfaro, con tono arrogante e minaccioso, sicuri di poter ottenere una qualche risposta.
Al processo per la mancata cattura di Provenzano che ha visto irrompere per la prima volta nella storia anche la trattativa con una precisa imputazione i pm Ingroia e Di Matteo hanno depositato la lettera con cui i mafiosi e i loro familiari, in forma anonima, si rivolgono non solo al presidente della Repubblica, ma anche al Papa, al vescovo di Firenze e ad altre personalità tra cui Maurizio Costanzo. E la scelta di questi soggetti non appare casuale visti poi i luoghi delle stragi.
Sostanzialmente vengono lamentate le “angherie” cui sarebbero sottoposti i detenuti trattati come “carne da macello”. E l’invettiva è direttamente per il capo dello Stato:
"Ora, se lei ha dato ordine di uccidere, bene, noi ci tranquillizziamo, se non è così guardi che per noi è sempre il maggior responsabile, il più alto responsabile dell'Italia "civile" che, con molto interesse, ha a cuore i problemi degli animali, i problemi del terzo mondo, del razzismo e dimentica questi problemi insignificanti perché si tratta di detenuti, ovvero di carne da macello".
Il tono si fa ancor più minaccioso quando cominciano i suggerimenti con il solito appello ad dio mafioso chiamato a fare giustizia tra gli ingiusti.
“Per noi e per loro resta solo la consolazione che un giorno Dio, che ha più potere di lei, sarà giusto nel suo giudizio.... lei si è vantato più volte di essere un autentico cristiano. Le consigliamo di vantarsi di meno e di AMARE di più. Non ci firmiamo non per paura, ma per evitare ulteriori pene ai nostri familiari (e poi fanno lezioni di mafia!).... Al momento non crediamo che la volontà dello Stato che lei rappresenta sia così civile nel dare una risposta adeguata. La sfidiamo a smentirci".
Il documento sarebbe stato consegnato nei giorni scorsi ai pm di Palermo da Sebastiano Ardita, direttore del DaP dal 2002 e autore del libro “Ricatto allo Stato” nel quale il magistrato racconta i retroscena della nascita, gestazione e crescita del carcere duro, incubo dei mafiosi e priorità in quel papello di richieste avanzate in cambio del ritorno alla pax-mafiosa.
Se e come lo stato abbia risposto all’intimidazione è materia di accertamento degli inquirenti sta di fatto che questo altro tassello va ad aggiungersi alla liste delle anomalie di quei concitati mesi che precedono e seguono le stragi del continente.
lettera-41bis-web-bigA partire dall’appunto del 26 giugno del ’93 inviato dall’allora direttore del DAP Adalberto Capriotti all’allora Ministro di Grazia e Giustizia Giovanni Conso in cui si discute se prorogare o non prorogare il 41 bis a “400 detenuti di particolare pericolosità, con posizione di particolare preminenza nell’ambito dell’organizzazione criminale di appartenenza”.
Malgrado siano pericolosi Capriotti propone a Conso di verificare se sussistano ancora le condizioni che portarono all’applicazione del 41bis (non era passato nemmeno un anno dalla strage di Via D’Amelio e meno di un mese da via dei Georgofili) e propone di dimezzare la durata dei decreti da un anno a sei mesi. Per quale ragione? Eccola scritta nero su bianco:
“La linea complessivamente indicata, se attuata, consentirebbe di soddisfare contemporaneamente sia le esigenze di sicurezza, ordine pubblico e contrasto alla criminalità organizzata, sia l’esigenza di non inasprire inutilmente il “clima” all’interno degli istituti di pena ove la tensione è già evidente per il notevole sovraffollamento generale ed i problemi del personale di polizia penitenziaria. Infatti le proposte di ridurre di circa il 10% il numero di soggetti sottoposti al regime speciale aggravato, di non rinnovare alla scadenza i provvedimenti ex 41 bis emessi e di prorogare il predetto regime speciale di soli sei mesi, costituiscono sicuramente un segnale positivo di distensione”.
Una “distensione” con i criminali che avevano messo a ferro e fuoco il Paese e privato le famiglie e tutti noi di due magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Sentiti dai magistrati Conso, che ha poi effettivamente non prorogato il 41bis per 334 detenuti nel novembre 1993, ha dichiarato di aver agito in totale autonomia, ma basterebbe la lettera in questione a smentirlo. E Capriotti ha preteso di far intendere di non aver mai saputo nulla di queste mancate proroghe per le quali la procura di Palermo avvertita il 29 ottobre (un venerdì) per un provvedimento in scadenza il 1°novembre (festa) aveva dato parere negativo.
“Sotto la sua gestione, - domanda il procuratore Messineo - a novembre del 1993, furono non prorogati e quindi di fatto revocati se così vogliamo dire (…) circa oltre 300 posizioni fra cui io ho letto qua l’elenco, anche noti capimafia, come lo spiega?”. “Io rispondo – dice Capriotti – l’amministrazione ha valutato e se ha valutato bene è un altro paio di maniche, che non convenisse prorog… riandiamo al discorso qualcuno forse ha suggerito… ecco, questo è… (…) il ministro era a conoscenza di questa revoca”. Capriotti, invece, sostiene di non essere stato mai informato da nessuno.
E mentre continua il festival degli smemorati sale, più legittima che mai, la rabbia dei familiari delle vittime delle stragi.
“Siamo scandalizzati” ha ripetuto Giovanna Chelli da sempre in prima linea per pretendere verità e giustizia.
“Siamo scandalizzati davanti alla difesa d’ufficio verso la parola trattativa di tutti questi 18 anni , vogliamo la verità tutta fino in fondo.
Abbiamo diritto alla verità, perché temiamo che per salvare se stessi insieme  alla “ragione di stato” che copre il vero movente delle stragi del 1993, siano stati lasciati uccidere i nostri figli, così come altrettanti ce li hanno resi invalidi, e questo va chiarito una volta per tutte con un pubblico processo ai mandanti non appartenenti a cosa nostra, per la strage di via dei Georgofili, quelli “non pungiuti” di mandanti tanto per capirci.
Non vogliamo più sentire invocare il codice di procedura penale quale alibi, perché la prova mancherebbe, chi sa parli e la smetta di fare il pesce in barile”.

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