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La lettera di Giuseppe Graviano: “Quando il mio stato di salute lo permetterà risponderò alle domande della Corte”.
di Monica Centofante

“Una storia fatta di mezze frasi”. Quelle che a una “persona comune” non dicono nulla, ma che dentro Cosa Nostra “fanno una casa”, fanno “un palazzo”.
Gaspare Spatuzza, ex uomo d'onore di Brancaccio, è solo l'ultimo dei pentiti che quell'universo di codici non scritti di cui è permeata l'organizzazione criminale siciliana lo ha spiegato ai magistrati. A modo suo, con le parole semplici di chi la vita l'ha trascorsa a pianificare ed eseguire omicidi e stragi, ma con l'autorità conferitagli dal rapporto speciale che da sempre lo lega ai capi della “supercosa” Filippo e Giuseppe Graviano. I due boss che venerdì scorso hanno debuttato in videoconferenza al processo palermitano contro il senatore Marcello Dell'Utri regalando, in diretta nazionale, una delle più sofisticate lezioni di mafia.
Per i profani quelle smentite alle dichiarazioni di Spatuzza - sui legami tra i due capimafia da una parte, Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri dall'altra - avranno di certo rappresentato motivo di delusione. Ma per chi sa leggere tra le righe, dizionario di Cosa Nostra alla mano, è passato ben altro messaggio. Delle nette prese di distanza, delle feroci accuse di infamità contro i pentiti, alle quali i boss in oltre vent'anni di processi ci hanno abituato, nemmeno l'ombra. E nelle domande rimaste in sospeso durante l'udienza l'inedito rispetto dei due capimafia – emerso nel corso dei confronti e riportato nei verbali depositati a processo - per la scelta del “figlioccio” di passare dalla parte della Giustizia. Insieme alle tante parole di affetto che Filippo Graviano rivolge “all'amico e fratello” Gaspare, al quale augura “tutto il bene del mondo” e pur smentendo i fatti specifici raccontati dal pentito, dichiara: “Non ti dico che stai mentendo”.
Un'apparente contraddizione, che da una parte sembra avallare le dichiarazioni del pentito in merito ad un colloquio che sarebbe intercorso tra i due, nel 2004, all'interno del carcere di Tolmezzo: “Dobbiamo far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove deve arrivare – avrebbe detto Filippo Graviano a Spatuzza - è bene che anche noi cominciamo a trattare con i magistrati”.
Erano gli anni della “dissociazione” e delle insistenti richieste di allentamento del 41bis provenienti da diversi istituti di pena e l'odierno pentito aveva collegato quel discorso al colloquio intercorso dieci anni prima con Giuseppe Graviano all'interno del bar Doney di via Veneto, a Roma. Quando, raggiante, il boss gli aveva confidato: “Abbiamo ottenuto quello che volevamo”, grazie a Berlusconi “e c'era di mezzo un nostro compaesano, Dell'Utri” (“una persona vicinissima a noi”, “qualcosa di più di Berlusconi”). Persone serie - “non come quei quattro crasti dei socialisti” - con le quali “ci siamo messi il Paese nelle mani”. Era il coronamento di una “trattativa” che Spatuzza sapeva essere in corso da tempo e che univa in un unico disegno tutte le stragi del '92 e del '93. Tirando, contemporaneamente, un filo logico tra alcuni eventi dei primi anni Novanta e quel rapporto instaurato, probabilmente già allora, con l'attuale presidente del Consiglio.
Già nel 1989, quando esce dal carcere, racconta il pentito, Filippo Graviano manifesta una “grandezza imprenditoriale”. E insieme al fratello decide di aprire a Palermo due o tre magazzini Standa, intestati a un prestanome (Michele Finocchio): “Uno a Brancaccio, uno a Corso Calatafini e uno... via Duca della Verdura”.  Contemporaneamente si interessa anche alla società Molini Virga, citata da numerosi pentiti e riportata nella sentenza di primo grado che ha condannato il senatore Dell'Utri a nove anni di reclusione. “Là – spiega ancora – c'è una questione che non ci deve mettere mano nessuno. Però a voce di popolo tutti sanno che là c'ha interessi fortissimi Berlusconi”.
Nel 1991 – continua Spatuzza - i fratelli Graviano iniziarono a “svendere” le loro proprietà i loro appartamenti su Palermo perché avevano bisogno di liquidità che “non sono stati impiegati per quello che so io (…) per acquisti di mia conoscenza”. E dal momento che non erano “tanto attenti” al versante palermitano “ne dedussi che forse aveva intenzione di spostarsi”.
In quello stesso periodo Cosa Nostra stava organizzando su Roma l'attentato contro Giovanni Falcone, ma all'improvviso “c'è un cambiamento di situazione” e il gruppo di fuoco viene richiamato a Palermo perché “si deve accelerare il tempo e “occorre fare un attentato eclatante”. Quindi “avviene Capaci, avviene Borsellino e siccome la cosa è tanto bella, di portarla ancora avanti. E li nascono le stragi. Il colpo allo Stato”, per il quale Cosa Nostra ha precise garanzie: “Per sferrare un attacco così diretto era più che superprotetta”. Tanto che Filippo Graviano ostentava la sua sicurezza e in riferimento alla magistratura a Spatuzza diceva: “Faglieli fare i processi e un giorno li rifaremo noi”.
Nel 1993 i Graviano si trasferiscono a Milano per trascorrere la latitanza. Una cosa “anomalissima” per le comuni regole di Cosa Nostra, come quegli appuntamenti “sulla riviera ligure, a Gardaland” o a “Porto Rotondo”. Il Natale del 1993 lo trascorrono nella capitale lombarda e alla fine di gennaio del 1994, soltanto due settimane dopo l'incontro al bar Doney, vengono arrestati a Milano. “Traditi”. “Venduti” da qualcuno che, gli stessi boss specificano a Spatuzza nel 2004, non è da cercare “dentro Cosa Nostra, ma altrove”.
In quello stesso anno Marcello Dell'Utri viene condannato  in primo grado a nove anni di reclusione e in un'intervista al Corriere della Sera dichiara che nonostante i suoi guai giudiziari “fino alla fine avrebbe mantenuto gli impegni presi con gli elettori”. Nelle fila di Cosa Nostra, la dichiarazione viene percepita come un messaggio. Dell'Utri, continua Spatuzza, solitamente non è una figura di “prima linea, ma marginale”, “quindi io che sto leggendo quell'articolo e so tutto che c'è dietro, quindi a 'sto punto, con quell'articolo si sta rivolgendo con me”. Per questo stesso motivo i Graviano decidono di aspettare. Ma, conclude amaro il pentito, “stanno aspettando più che altro un'illusione di colui che se li è venduti per carne di macello”.
Venerdì, in videoconferenza dal carcere di Parma, Giuseppe Graviano si è avvalso della facoltà di non rispondere, ma ha chiesto al Presidente che fosse letta in udienza una lettera inviata in mattinata alla Corte. Il giudice ha negato la possibilità e il boss, in una sola frase, il suo “messaggio a buon intenditor” lo ha lanciato comunque: “Per il momento non sono in grado di essere sottoposto a interrogatorio”. Vedremo “quando il mio stato di salute me lo permetterà”.
Nella missiva, successivamente pubblicata sui giornali, poche righe per descrivere un profondo stato di malessere: 16 anni di detenzione al 41bis, più di 10 di isolamento, una serie di problemi fisici e un trattamento che “viola articoli dell'Ordinamento Penitenziario, Carta Costituzionale, Convenzione dei Diritti Umani, ed anche diritti dell'infanzia e dell'adolescenza per il motivo che mio figlio di anni 12 chiede perché non possiamo scambiarci baci e carezze, perché ci permettono di incontrarci solo 1 ora al mese attraverso un vetro divisorio?”.
Al termine dell'elenco, la sentenza, la stessa già pronunciata in videoconferenza: “Sarà mio dovere quando il mio stato di salute lo permetterà di informare l'Illustrissima Corte d'Appello per rispondere a tutte le domande che mi verranno poste”.
Chissà se la richiesta è giunta a destinazione. Ciò che è certo è che ora attende una risposta.

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