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Indice articoli

cuffaro5.jpgdi Silvia Cordella

 

 

“GIOVEDì VADO DA TOTO’”
Così il boss scoprì la “cimice”, “Talpe”, chiesti 8 anni per Cuffaro.
di Silvia Cordella

«Nessun turbamento o interferenza si è verificato sui magistrati del pubblico ministero» al processo Cuffaro. In undici pagine i magistrati palermitani contestano così l’istanza di “legittima suspicione” avanzata dalla difesa del Presidente della Regione che chiedeva di trasferire il suo processo a Caltanissetta per «mancanza di serenità» delle parti. I procuratori della Dda di Palermo specificano: al processo “talpe” non è stato provocato alcun «pregiudizio alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo», quel clima di cui parla la difesa dunque non minerebbe l’imparzialità della Corte. La richiesta di trasferimento avviata dagli avvocati Caleca, Mormino e Gallina (ai quali si aggiunge l’avvocato Franco Coppi, già difensore di Andreotti), era nata in seguito alle polemiche sorte durante la fase della requisitoria tra i magistrati impegnati in aula e gli altri colleghi dell’ufficio palermitano. I titolari del processo Maurizio De Lucia, Michele Prestipino e l’aggiunto Giuseppe Pignatone avevano espresso i motivi per i quali contestare all’onorevole siciliano il reato di favoreggiamento aggravato e non quello di concorso esterno, spiegando che nonostante le gravi responsabilità non emergerebbe nel caso di Cuffaro «il requisito di base» del patto di scambio politico-mafioso che sancirebbe i termini del reato di mafia. Una «valutazione individuale dei due sostituti» aveva invece puntualizzato dal Palazzo della Dda l’aggiunto Morvillo, sottolineando che «la linea dell’ufficio sarebbe stata consacrata dalla riapertura dell’indagine al Governatore sulla base del reato di concorso esterno alla mafia». Una divergenza di analisi che aveva portato in passato a una spaccatura all’interno del pool originariamente costituito anche dai magistrati Nino Di Matteo e Gaetano Paci, dissidenti proprio della linea processuale adottata dai colleghi e quindi dimissionari dall’incarico. Nella memoria sottoscritta dal Procuratore capo di Palermo Francesco Messineo e dai titolari del procedimento, chiarisce quelli che sono i punti salienti della diaspora che ha portato i legali ad appellarsi all’ex art.11 c.p.p. Il dissenso del pm Di Matteo rispetto agli altri colleghi del suo processo, hanno dichiarato i magistrati, si è “limitato a questioni di tipo tecnico-giuridiche” e l’appunto apostrofato dall’aggiunto Morvillo a De Lucia durante la requisitoria è una “oggettiva diversità di vedute”, per tale motivazione “non si vede come possa turbare la serenità dei Giudici e la libertà delle parti”. Inoltre, su un episodio che il Presidente aveva sempre contestato circa l’esistenza di un “teorema” giustizialista nei suoi riguardi, i magistrati si difendono: la presenza del pm Gaetano Paci a un dibattito politico di Rita Borsellino, sua rivale alle elezioni del 2006 risale a un periodo in cui il pm non aveva più la delega sul processo Cuffaro. Prendendo spunto dalle polemiche sorte sul caso, la questione era anche rimbalzata negli studi televisivi di Giuliano Ferrara, dove si era cercato di imbastire il solito “complotto di Palazzo” che avrebbe dato luogo a una guerra intestina tra i magistrati della Dda di Palermo. Il tutto “scontrandosi sulla testa” del Presidente Cuffaro che nel giro di pochi minuti da imputato di mafia diventava vittima della Procura. Le divergenze di uno dei più importanti uffici antimafia venivano così strumentalizzate secondo una metodologia tipica, sviando l’attenzione dal vero problema: quello dei rapporti del Presidente della Regione con Cosa Nostra. Contestazione avanzata sia dai magistrati che per lui hanno chiesto la condanna a 8 anni per favoreggiamento aggravato che da coloro che ritengono di doverlo processare per concorso esterno in associazione mafiosa.

Borghesia mafiosa

L’inchiesta sulle “talpe”, che ha coinvolto personaggi di primo piano della classe medio alta del circolo cittadino, è riuscita a fotografare vecchi scenari in una Palermo moderna. Uomini dello Stato, ufficiali dell’Arma, professionisti, amministratori insieme a mafiosi o presunti tali, tutti parte di quella “borghesia mafiosa” mai estinta. A scoperchiare la pentola di questa desolante realtà sono state le preziose dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Salvatore Barbagallo, Antonino Giuffrè, Salvatore Aragona e Francesco Campanella. I pentiti hanno raccontato aspetti differenti di un’unica storia: quella dell’infiltrazione mafiosa all’interno della politica e dell’imprenditoria siciliana, focalizzandosi sulle figure di due volti noti nel panorama imprenditoriale mafioso palermitano: l’imprenditore di Bagheria Michele Aiello e il capomandamento di Brancaccio Giuseppe Guttadauro. Due personaggi che hanno gravitato nella cerchia più ristretta delle amicizie dell’on. Cuffaro, talmente importanti da indurre il Presidente della Regione a spendersi personalmente tutelando loro e se stesso attraverso lo spionaggio informatico delle indagini antimafia. Quelle stesse legate a doppio filo con il capo di Cosa Nostra: Bernardo Provenzano. Circostanze che hanno procurato al Governatore il rinvio a giudizio per favoreggiamento aggravato e rivelazione di segreto d’ufficio.

 

Miceli a casa del boss “per motivi umanitari”

D’altra parte, i motivi per i quali Cuffaro ha necessità di cautelarsi dalle indagini sono diversi anche secondo il pool di Pignatone.

Si comincia dalle Regionali del 1991 quando la campagna elettorale del politico di Raffadali (Ag), si arricchisce di strette di mano e richieste di voti ad Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra. Incontro confermato dallo stesso onorevole il quale, non ignorava il suo spessore mafioso tanto da provocare le ire dell’allora suo capocorrente on. Mannino.

Il Governatore d’altra parte ammette di non avere pregiudizi verso i mafiosi che hanno scontato la loro pena “in quanto cittadini con diritto di voto”. Per questo si incontrerà più volte con gli “amici degli amici”. Lo farà elargendo i suoi consigli al boss Francesco Bonura, intercettato nell’ambito dell’inchiesta “Gotha” a settembre 2005 mentre ne commenta il dialogo a Rosario Marchese. E lo fa incontrando più volte nel suo salotto Salvatore Aragona e Mimmo Miceli per sviluppare progetti di natura economica e politica. Il primo, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa (all’epoca dei fatti in attesa del parere della Cassazione), il secondo, condannato anche lui per lo stesso reato lo scorso anno (all’epoca dei fatti abituale frequentatore di Guttadauro).

Cuffaro li conosce entrambi dai tempi dell’Università e mantiene con loro un rapporto stabile anche durante la campagna elettorale del 2001. Quella stessa in cui Miceli e Aragona oltre a frequentare la sua abitazione spenderanno parole ed energie per cercare di realizzare i disegni di Guttadauro, tra questi, la candidatura di “Mimmo” sotto le ali del politico agrigentino.  Secondo i pm proprio in questo passaggio, non vi sarebbe però la prova diretta dell’accordo tra Guttadauro e Cuffaro. «Se vi fosse saremmo in presenza di una responsabilità di concorso esterno in associazione mafiosa» hanno detto, «questo perché  lo stesso Miceli e Aragona erano in quel momento mossi da loro personali e specifici interessi ad acquisire l’appoggio di Guttadauro, vantando di avere quello di Cuffaro e di accreditarsi come tramite con il candidato Presidente». «In mancanza di altri riscontri sul punto dunque (oltre alle ambientali, ndr), non è quindi possibile ritenere senz’altro che le loro parole rispecchino con la necessaria precisione e fedeltà quanto da loro riferito a Cuffaro, né la posizione effettivamente espressa dall’imputato». 

Secondo il pm inoltre, la prova tangibile del “patto di scambio politico-mafioso non sarebbe emerso con precisione neanche in merito all’attivazione di Cuffaro in favore dei dottori Catarcia e Giannone che come voleva Guttadauro dovevano essere inseriti nei concorsi medici. De Lucia ha precisato sul punto: «che sì, il Governatore si era attivato, ma che questa attivazione rispecchi un pregresso interesse di Guttadauro non è dimostrato». Stessa valutazione per quanto riguarda la vicenda del centro commerciale di Brancaccio che stava tanto a cuore al boss. Anche qui per il pm non vi sarebbero «elementi per ritenere che Cuffaro abbia in alcun modo appoggiato l’iniziativa ».

Il Governatore, che ha sempre smentito naturalmente ogni addebito, non ha potuto comunque negare la personale conoscenza di Guttadauro così come il fatto che alla data delle competizioni elettorali 2001 conoscesse i suoi risvolti giudiziari, sapendo per altro che di tanto in tanto il suo candidato Miceli lo andava a trovare a casa “per motivi umanitari”.

 

 

Guttadauro:«Mi interessa sapere se sono io…»

Sul capitolo relativo alle fughe di notizie in favore del boss Guttadauro ascritte a Cuffaro, il pool di Pignatone non ritiene accertato (per mancanza di riscontri) il dato raccontato da Aragona dell’incontro milanese tra questi e Miceli il 16 marzo 2001, così come quello relativo alla cena al Riccardo III di Monreale, organizzata a conclusione delle elezioni Regionali del 24 giugno 2001. Riscontra invece la colpevolezza dell’imputato sulle rivelazioni del 12 giugno 2001 che seguendo la sequenza Riolo – Borzacchelli – Cuffaro –Miceli – Aragona, portò il boss al rinvenimento delle microspie nel suo salotto il 15 giugno 2001.

Quel giorno il medico di Altofonte aveva appreso da Domenico Miceli, per averlo a sua volta saputo da Cuffaro, che era stata intercettata una telefonata in cui “Peppino” parlava al telefono con “Mimmo”. La notizia sulla intercettazione era trapelata dagli ambienti investigativi grazie a una confidenza che il maresciallo del Ros, Giorgio Riolo aveva fatto quindici giorni prima della scoperta della cimice, al maresciallo Borzacchelli.

«Innanzitutto mi interessa sapere se sono io che parlo o sono altri che parlano…» aveva chiesto il capomafia ad Aragona, il quale gli risponde: «Dicono che c’è Peppino che parla con qualcuno… » «A lui (a Miceli, ndr) glielo ha detto Totò che lo ha chiamato…». I due si lasceranno poi con la promessa di Aragona di saperne di più nei giorni successivi: «Giovedì vado da Totò…». «Il giovedì seguente al 12 giugno – constata il pm -  è il 14 giugno 2001 e precede di un giorno la scoperta della microspia. Evidentemente erano stati adempiuti gli approfondimenti promessi prima di procedere alla ricerca di questa microspia».

Il 15 giugno infatti Guttadauro troverà il congegno elettronico che negli ultimi istanti “di vita” prima della sua distruzione, registrerà  la signora Greco esclamare: «Veru Ragiuni avìa Totò Cuffaro». Ed ancora: «E meno male che ce l’hanno detto». Consolidando dunque la tesi della procura sull’identità del suo informatore e sulla rete di spionaggio che aveva fatto trapelare l’informazione fino alle orecchie del capomandamento di Brancaccio.

 

 

Compari d’anello a Villabate

A cavallo di quelle elezioni  Regionali Cuffaro aveva imbastito amicizie anche fuori Palermo. Tra tante quella con l’ex presidente del consiglio comunale Francesco Campanella, legato alla famiglia mafiosa di Villabate, di cui è pure compare d’anello insieme all’attuale guardasigilli dell’Udeur Clemente Mastella. Da Campanella, che gestisce un negozio di telefonia a Palermo, il Governatore si serve per l’acquisto di sim e telefonini. Uno si scoprirà viene intestato a una signora risultata inesistente all’anagrafe italiana, un altro, sempre in uso all’entourage del Presidente, ma intestato al pentito, effettuerà uno scambio di telefonate con un ufficio non meglio precisato del Sisde di Palermo.

Francesco Campanella, presidente nazionale dei giovani Udeur affiancherà lo stesso Cuffaro in una breve tappa politica nel partito di Mastella. Il giovane, che falsificherà la carta d’identità di Provenzano per il suo viaggio di cure a Marsiglia, è la longa manus di Nino Mandalà boss di Villabate detto “l’avvocato” il quale, attraverso di lui, cercherà di portare a compimento un “appetitoso” progetto commerciale nella sua Villabate. Per riuscire ad ottenerne l’approvazione, il “vecchio” padrino si sentirà forte degli agganci di Campanella alla Regione in virtù della sua personale amicizia con l’on. Cuffaro. La cosa però non si concretizzerà e Campanella si lamenterà di essere stato “scaricato” all’ultimo momento dal Presidente.

Cinonostante “Totò” si sentirà in dovere di avvisare il suo amico (con cui ammette di aver intrattenuto “stretti rapporti” sul piano personale fino al 2003) dell’esistenza di indagini antimafia nei suoi confronti per i suoi rapporti con i Mandalà. Lui, Cuffaro, dice che lo aveva saputo da una serie di voci che arrivavano da Villabate. Campanella invece afferma che il Presidente gli aveva raccontato di essere stato informato dal maresciallo Borzacchelli, il sottufficiale che gli era stato presentato da “amici di Bagheria”, e che era stato candidato alle Regionali del 2001 proprio per proteggerlo da eventuali problemi giudiziari

Campanella sostiene Acanto ma vota Borzacchelli

E che per Cuffaro l’elezione di Borzacchelli fosse una priorità lo sostengono in aula anche i pm dell’accusa. Il dato viene confermato «dal fatto che egli chiese ed ottenne il voto per il graduato da Francesco Campanella,  che per i suoi legami con la famiglia mafiosa dei Mandalà doveva appoggiare la candidatura dell’on.Acanto». 

Il sottufficiale era stato eletto con un modesto numero di voti staccando di poco l’ex assessore alla Sanità del comune di Palermo Domenico Miceli. Quelle preferenze erano comunque servite ad aprire al maresciallo del Nucleo Operativo provinciale di Palermo le porte del Palazzo dei Normanni. Una soddisfazione per lui, per l’Udc, ma soprattutto per Salvatore Cuffaro che per portarlo con sé aveva creato la lista del “Biancofiore” e dirottato una potenziale fetta del suo elettorato in favore del suo maresciallo. Tutto questo per ottenere una “copertura” in Regione che potesse proteggerlo da eventuali noie giudiziarie.

 

 

La rete riservata

D’altronde il Presidente aveva già testato la sua affidabilità di “consigliere” quando nel ’99, Borzacchelli lo aveva convinto ad effettuare una bonifica dalle microspie nei suoi uffici e nella sua abitazione. Ad eseguire i lavori di “ripulitura” venne incaricato uno dei migliori professionisti dell’Arma dei Carabinieri di Palermo: il maresciallo Giorgio Riolo. Questi è infatti il tecnico più competente della sezione anticrimine palermitana e da dieci anni il sottufficiale di riferimento per molte indagini antimafia su latitanti eccellenti del calibro di Salvatore Lo Piccolo, Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro.

Riolo è però una spia nelle mani dell’ing. Michele Aiello, il ricchissimo imprenditore vicino alla “famiglia” di Bagheria, inserito nella gestione della spartizione illecita degli appalti in Sicilia, che avrebbe costruito la sua immensa fortuna grazie alla personale protezione di Bernardo Provenzano. All’epoca incensurato e grande sostenitore dell’Udc di Cuffaro, l’ingegnere intratterrà con “Totò” legami di tipo affaristico e amichevole. Gli affari riguarderanno le cliniche di Aiello “Villa Santa Teresa” e “Atm” che, grazie ai raggiri di funzionari compiacenti del distretto sanitario di Bagheria e della Regione, riuscirà a farsi rimborsare fior di quatrini aumentando i suoi ricavi del 780 % in due anni. Per questo motivo il comune di Bagheria e l’Asl 6 hanno chiesto risarcimenti per un complessivo di 86 milioni di euro. 

I legami amichevoli tra Cuffaro e Aiello invece sfoceranno nelle rivelazioni del 20 e soprattutto del 31 ottobre 2003, quando il Presidente (a quel tempo già indagato nell’inchiesta su Guttadauro), liberandosi dalla scorta con un pretesto, lo vorrà incontrare in incognito nel retrobottega di un negozio di abbigliamento a Bagheria. A quell’appuntamento il leader dell’Udc informerà l’ingegnere Aiello che la Procura (da tempo impegnata a “scavare” sulle sue relazioni con Cosa Nostra  e sulle sue strutture sanitarie) aveva puntato i riflettori sui marescialli Ciuro e Riolo, gli ideatori di quella rete riservata di telefonini che serviva a proteggere l’ingegnere dalle indagini. Un sistema di comunicazione costituito da diversi cellulari in uso a lui e ai suoi uomini di fiducia, intestati ad inconsapevoli dipendenti della sua clinica. La rete privata permetteva ai due sottufficiali di riferire e parlare liberamente delle indiscrezioni acquisite sul fronte investigativo: Ciuro violando il sistema informatico della Procura di Palermo, Giorgio Riolo contravvenendo a quei principi di segretezza a cui era tenuto riguardo le investigazioni della sua sezione del Ros. Le rivelazioni del Presidente erano vere. Cuffaro  le aveva ricevute da una fonte ben informata in “diretto collegamento” con Roma e che non potevano di certo essere facilmente verificate per via del fatto che i due graduati erano stati iscritti nel registro degli indagati con nomi di copertura.  

Purtroppo, hanno concluso i pm, per la reticenza degli imputati Aiello e Cuffaro non è stato possibile risalire alla fonte informativa del Governatore sulle indagini segrete a carico di Ciuro e Riolo, sia essa una “talpa” palermitana, romana o interna alla Procura. Nel tradimento di questi uomini dello Stato, ha commentato in aula Pignatone è dunque riduttiva la definizione di “talpe”, rispetto al significato strategico che gli episodi di questo processo hanno assunto agevolando Cosa Nostra. Un’agevolazione compiuta in nome di una commistione di «interessi che hanno accomunato mafiosi, professionisti e appartenenti alle istituzioni della rappresentanza politica». In questo senso si può dire che «Aiello sia un esempio emblematico della strategia mafiosa che s’inserisce per via diretta nel sistema produttivo siciliano anche in settori di alto livello tecnologico e che si può sintetizzare con le parole di Provenzano riferite da Campanella: «Ora dobbiamo fare impresa». Infatti non si può non fare riferimento a Provenzano, «la faccia nascosta ma non meno presente di questo processo». «E ora - ha solo potuto constatare l’aggiunto a fine requisitoria - si possono solo rimpiangere le occasioni perdute per la mancata comprensione di quel “pizzino” sequestrato a Totò Riina nel ’93 e a quelli consegnati da Luigi Ilardo al colonnello Riccio nel ‘95». Entrambi suggerivano gli interessi gravitanti intorno alle imprese di Aiello: “Altofonte vicino cava Buttitti (Buttitta, ndr) strada interpoderale. Ing. Aiello” . 

 

 

 

 

ARTICOLO PUBBLICATO NELLA RIVISTA ANTIMAFIADUEMILA NUMERO 5 2007 IN EDICOLA DAL 22 DICEMBRE 2007  PER ABBONARSI CLICCAQUI

 

 

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