A Cinisi un corteo per chiedere diritti, pace e giustizia per tutti
E' un fiume di giovani, giovanissimi, scolaresche, cittadini, sindacati, esponenti politici, militanti, appartenenti del mondo dell’associazionismo antimafia e non solo quello che si è riunito oggi a Cinisi per ricordare ed onorare la memoria di Peppino Impastato. Quarantasette anni dopo quel terribile 9 maggio 1978, in cui si ricorda anche la morte dell'onorevole Aldo Moro, Peppino resta un simbolo di lotta ed impegno in un tempo in cui non si possono avere mezze misure.
Contro le guerre, contro il riarmo, contro le mafie, contro la corruzione, contro l'assenza di politiche sociali, contro abusi e soprusi nel mondo del lavoro, contro il Mous, il Ponte sullo Stretto, contro la disinformazione, contro il negazionismo, le mancate verità e la volontà di riscrivere la storia del nostro Paese.
Il lungo corteo partito dalla storica sede di Radio Aut, a Terrasini, per raggiungere Casa memoria a Cinisi, racconta proprio tutto questo. Tra colori, musica e canti: “Peppino è vivo e lotta insieme a noi. Le nostre idee non moriranno mai”.
“Scendiamo in strada al fianco del popolo palestinese e di tutti i popoli in lotta per l'autodeterminazione per ribadire il nostro impegno per la pace, la solidarietà e la giustizia sociale. Perché lotta alla mafia è anche una battaglia per i diritti” hanno detto con forza gli organizzatori.
Dal balcone di Casa Memoria, dove si percepisce ancora la presenza di mamma Felicia, è intervenuta Luisa Impastato, nipote di Peppino Impastato: “L'azione politica di Peppino non è morta con lui, un militante comunista, un attivista e uomo libero. La lotta alla mafia non si è ancora esaurita. Pochi mesi fa arrestate più di 180 persone tra Palermo e provincia. Questo ricorda ancora una volta la capacità riorganizzativa della mafia con la ricerca di nuove forme di adattamento e di controllo.
La mafia è un sistema di potere, volto violento di un modello economico e sociale che sfrutta devasta, inquina e ricatta. Dove si tagliano diritti nel nome del profitto che è dentro le speculazioni, le opere inutili, la precarietà, la povertà pianificata. Peppino ci ha insegnato che lotta alla mafia è lotta per la giustizia sociale. E' lotta di classe, è difesa della scuola pubblica, della sanità per tutti, del lavoro dignitoso”.
Quindi ha espresso un giudizio forte contro il governo attuale che “usa parole e pratiche fasciste, che nega la storia della Resistenza e strizza l'occhio dei poteri forti. E reprime chi alza la testa. Si reprimono movimenti e si criminalizza il dissenso con leggi autoritarie. Si attaccano studenti e si tolgono spazi di parola e organizzazioni. Fuori dai nostri confini la guerra è un linguaggio quotidiano. Assistiamo a un mondo che brucia per interessi geopolitici ed economici. E il governo anziché costruire pace e giustizia pensa al riarmo, a costruire muri, a fare affari”. Contro la guerra ed il genocidio a Gaza sono state ricordate le parole di Vittorio Arrigoni, “Restiamo umani”.
Luisa Impastato
E poi ancora la nipote di Impastato ha aggiunto: "Quello che è successo a Monreale ci richiama tutti alla responsabilità e noi pensiamo che sia frutto di quella cultura mafiosa che ancora è forte e dilagante. Portare avanti o difendere la memoria di storie come quella di Peppino credo possa aiutarci ad avere punti di riferimento sani che rimandano a valori quali la giustizia sociale, la solidarietà, l'uguaglianza utili anche a contrastare questa mentalità".
Tra gli intervenuti anche Jamil El Sadi, in rappresentanza della comunità palestinese ed Our Voice, che ha denunciato ciò che sta avvenendo a Gaza: “Sono tante le cose che legano la comunità palestinese a Peppino Impastato. Per noi, comunità palestinese di Palermo, per Our Voice, Peppino era un amico, un compagno di mille battaglie. Denunciava la mafia; difendeva l’ambiente, il diritto al lavoro, allo studio, alla sanità; si occupava della cosa pubblica; era contro le guerre, contro il nucleare, contro il capitalismo e contro ogni tipo di sopruso - politico o mafioso, per lui non c’era differenza -; difendeva la vita in quanto tale; amava senza limiti, senza freni, senza schemi o condizioni; amava l’amore in sé, lui, giovane senza confini. Peppino è stato un compagno che ha difeso il diritto del nostro popolo a resistere, a opporsi all’occupazione, ad autodeterminarsi contro l’entità sionista e contro la complicità della comunità internazionale, troppo spesso silente e omertosa, come la mafia”.
“La comunità palestinese ricorda il compagno Peppino anche perché Israele è una mafia - ha detto con forza - È la mafia più grande e pericolosa di questo secolo. È mafia a tutti gli effetti perché vuole tutto e tutto ottiene: con la forza, il ricatto, l’intimidazione, il sangue, il sopruso, la complicità, l’impunità e il denaro. È mafia perché il suo primo ministro è imputato per corruzione. È mafia perché uccide con modalità mafiose. Perché sta attuando un vero e proprio genocidio in Palestina. Una pulizia etnica che dura da oltre 76 anni. E il mondo troppo spesso tace. Solo ieri, a Nablus, un ragazzo è stato freddato dalle forze speciali israeliane in un agguato lampo, che ricorda quelli che hanno insanguinato anche questa terra. Militari in abiti civili hanno liquidato la scena dopo avergli dato il colpo di grazia mentre era a terra, con un colpo a bruciapelo. Peppino continua a chiederci di militare nelle strade, di partecipare al respiro democratico del Paese, ma anche di reagire e resistere ai rigurgiti del fascismo moderno. E di opporsi al sionismo: un’ideologia europea che ha fatto del colonialismo, dell’oppressione, del razzismo e dell’apartheid il proprio progetto politico. Resistere e ripudiare la guerra: è questo il compito, soprattutto in una fase storica profondamente segnata da autoritarismi e da maxi-investimenti in riarmo.
Jamil El Sadi
Con la sua visione di una lotta sociale intersezionale e interconnessa, Peppino ci ricorda che la resistenza partigiana e la resistenza palestinese devono essere le bisettrici del nostro tempio. La via maestra da percorrere per opporci a un sistema di potere fondato - fin dalla sua nascita - sulla pulizia etnica e sul genocidio del popolo palestinese. Ma anche sulla repressione del dissenso e delle minoranze, come sta accadendo oggi anche in Italia con il Decreto Sicurezza”. Ed infine ha concluso: “Amici, amiche, compagni e compagne: Peppino ha mostrato al mondo che l’antimafia deve essere sociale e intersezionale. Ha mostrato che con la potenza dell’arte si oltrepassano i confini e che non c’è rassegnazione finché esiste un sogno. Peppino ha mostrato la bellezza di un colore mai esistito prima. A noi il compito, arduo e necessario, di mantenerlo vivo. Viva Peppino! Viva la Palestina libera, oggi e sempre!”.
Il lungo percorso della verità oltre i depistaggi
“La linea scelta nell’accertamento delle cause e degli autori dell’assassinio è il frutto di un atto positivo di volontà, di una precisa scelta. Non negligenza o inerzia, ma scelta consapevole di non vedere la sfida della mafia e lucida decisione di lasciare inesplorati il sistema e i poteri criminali di quel territorio”. Nero su bianco il depistaggio delle indagini sul delitto di Peppino Impastato è stato certificato con queste parole, il 6 dicembre 2000, nella relazione della Commissione Antimafia allora diretta da Russo Spena. Una verità che traspariva sin dall’immediatezza delle indagini avviate in quel nove maggio di quarantasette anni fa. A lungo la madre di Peppino, Felicia, il fratello Giovanni, i compagni e il Centro Impastato si adoperarono per far luce su di esso, senza mai arrendersi a quelle false piste investigative che volevano dipingere l’Impastato come un terrorista ed un suicida.
“Giuseppe Impastato sfidò la mafia in un territorio in cui si era stabilito un sistema di relazioni tra segmenti degli apparati dello Stato e mafiosi molto potenti - è sempre scritto nella relazione della Commissione antimafia - un sistema di relazioni che, in quegli anni, può essere rinvenuto anche in altri territori, teso, spesso illusoriamente, alla cattura, per via confidenziale, di alcuni capimafia, all’apporto che queste relazioni potevano dare ad alcuni filoni di indagine o, comunque, ad una pacifica convivenza per un tranquillo controllo della zona”. “È anche del tutto probabile - si legge nel documento - che Badalamenti (il capomafia di Cinisi, ndr) abbia avuto dei rapporti confidenziali con i carabinieri in una zona alta, apicale, data la statura delinquenziale del capo mafia di Cinisi. È ancora tutto da scrivere il capitolo del rapporto tra mafiosi e forze dell’ordine. E quando lo si scriverà si potrà vedere che esso è popolato da notissimi capimafia i quali, agli occhi del popolo mafioso, vogliono apparire come i più fieri avversari della ‘sbirraglia’ ma in realtà con la ‘sbirraglia’ trattano, si accordano, fanno dei patti. Un doppio gioco. Per un lungo periodo storico la prassi dei rapporti confidenziali dei carabinieri e dei poliziotti con i mafiosi è stata un dato di fatto, anzi è stata il cuore di quelli che oggi vengono chiamati ‘colloqui investigativi’”.
La verità processuale sulla morte di Peppino non è stata semplice. All'inizio gli inquirenti parlavano di possibile suicidio. Nel maggio del 1984 l'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, sulla base delle indicazioni del Giudice consigliere istruttore Rocco Chinnici, che aveva concepito e avviato il lavoro del primo pool antimafia ed era stato assassinato nel luglio del 1983, emise una sentenza, firmata da Antonino Caponnetto, che aveva sostituito Chinnici dopo la sua morte, in cui si riconobbe la matrice mafiosa del delitto, attribuito però a ignoti. Il 5 marzo 2001 la Corte d'Assise riconobbe Vito Palazzolo colpevole materialmente dell'omicidio e lo condannò a trent'anni di reclusione. L'11 aprile 2002, a distanza di quasi 24 anni dal delitto, anche don Tano Badalamenti venne riconosciuto colpevole e condannato all'ergastolo.
Un altro pezzo di verità è stato scritto nelle pagine con cui il gip di Palermo Walter Turturici ha archiviato le indagini con l'accusa di favoreggiamento nei confronti del generale dei carabinieri oggi deceduto, Antonio Subranni e con l'accusa di falso per i sottufficiali che all’epoca condussero la perquisizione a casa Impastato: Carmelo Canale, Francesco De Bono e Francesco Abramo.
Esaminando due relazioni stilate dai carabinieri all’epoca dei fatti e consegnate dal comando provinciale dei carabinieri di Palermo nel 2000 emerse un chiaro riferimento “all’elenco del materiale informalmente sequestrato in occasione del decesso di Impastato Giuseppe, nella di lui abitazione”.
Un termine, quel “sequestro informale”, che non esiste in nessun manuale di diritto italiano."Emerge da un atto ufficiale dell’Arma - scrive il giudice - E ciò è grave". Evidenzia sempre il giudice come Subranni "aprioristicamente, incomprensibilmente, ingiustificatamente e frettolosamente escluse la pista mafiosa", e in merito alle anomalie investigative le apostrofa come "vistose, se non macroscopiche".
Perché l'allora maggiore Subranni mise in atto un tale operato?
Forse, per meglio comprendere il contesto in cui avvenne il delitto del 9 maggio 1978, vale la pena ricordare le parole di Franca Imbergamo, oggi sostituto procuratore nazionale antimafia, che istruì il processo contro i carnefici di Impastato: “Quello di Peppino Impastato non è un omicidio di mafia come tanti altri. In questa indagine non ci siamo imbattuti solo nelle cosiddette coppole, ma troviamo personaggi delle istituzioni. Istituzioni che non hanno il diritto di fregiarsi come tali, tra le forze dell’ordine e la magistratura, su questo omicidio hanno lavorato aI contrario per coprire le responsabilità di chi l’aveva commesso, ordinato, voluto, cercando di fare passare su Impastato la calunnia di essere un terrorista suicida che sceglie l’attentato alla linea ferroviaria. Il depistaggio serviva a tante cose.
Serviva ad alimentare il mito del terrorismo, gestito in una certa maniera contro la libertà democratica del paese. Serviva a coprire le responsabilità non tanto del singolo mafioso, ma di gruppi di potere”.
Quali erano gli interessi di questi gruppi di potere oltre i desiderata di don Tano?
Chi c’era dunque dietro quel delitto? Solo quando si darà risposta anche a questi interrogativi, forse, si potrà parlare di una giustizia completa.
Foto © Paolo Bassani
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