La lectio magistralis del sostituto procuratore nazionale antimafia alla ‘Sapienza’ di Roma
“Noi stiamo assistendo, senza accorgercene, a delle forzature del sistema costituzionale che io non intendo accettare”.
È una lectio magistralis sui valori etici e sul servizio alla collettività quella tenuta dal sostituto procuratore nazionale antimafia e già membro del Csm Nino Di Matteo davanti ad un’aula gremita di giovani studenti presso l’aula 301 dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma, messa a disposizione dal professore Marco Cosentino.
L’incontro “La lotta alla mafia e la nuova riforma sulla Giustizia” è stato moderato dallo studente Raffaele d’Alfonso del Sordo e organizzato dall’associazione “Sapienza Futura”.
Dopo i saluti istituzionali dell’ex ministro della giustizia e preside della facoltà di giurisprudenza Oliviero Diliberto – che ha definito gli attuali progetti di riforma come “orripilanti” - il magistrato è tornato così a parlare delle riforme della giustizia: “Io credo che quando parliamo di riforme, di progetti di riforma, non dobbiamo fare un errore che pure può essere comprensibile, cioè quello di valutare in maniera separata l'una dall'altra le riforme e i progetti di riforma che si stanno portando avanti. Bisogna un po' guardare al sistema complessivo e vi ho già accennato che complessivamente mi sembra che si vada in una direzione molto pericolosa: la formazione di scudo di protezione per i potenti e dall'altra parte quindi di una giustizia a due velocità, magari efficiente e rigorosa nei confronti delle manifestazioni criminali tipiche degli ultimi della società e invece con le armi spuntate nei confronti dei grandi fenomeni corruttivi, dei grandi fenomeni di collusione, dei grandi fenomeni di conflitto palese di interessi, dei grandi fenomeni di arricchimento anche sulla spalla dei più deboli. C'è anche, per fare questo, una volontà di ridimensionare quello che è il principio costituzionale dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura. Anche questo, io credo, bisogna inquadrarlo in un'ottica ancora più generale.
Noi stiamo assistendo di fatto ad una, e non solo in Italia, ma per ora parliamo dell'Italia, ad una concentrazione più spiccata dei poteri dell'esecutivo rispetto a quelli del legislativo”.
Di Matteo ha contestato la necessità della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, evidenziando che il passaggio tra le due funzioni riguarda meno dell’1% dei magistrati, rendendo il dibattito poco rilevante a livello statistico. Inoltre, ha smentito l’idea che i giudici siano appiattiti sulle richieste dei PM, citando numerosi casi in cui le loro decisioni si discostano dalle richieste dell’accusa.
La separazione delle carriere, come avvenuto in altri paesi, ha spiegato il magistrato, porterebbe inevitabilmente il pubblico ministero sotto il controllo dell’esecutivo, rendendolo un organo giudiziario collaterale e servente rispetto al governo. Questo, secondo Di Matteo, costituirebbe un pericolo per i cittadini, soprattutto per le minoranze e per il dissenso politico, poiché un pm dipendente dall’esecutivo potrebbe essere influenzato nelle sue decisioni.
Su questo ultimo punto si è agganciato ricordando che tale prospettiva era già stata contemplata all’interno del "Piano di Rinascita Democratica" di Licio Gelli, capo della P2, che prevedeva un controllo più stretto sulla magistratura. Lo stesso tema tornò d'attualità nel 1994 con il primo governo Berlusconi, rivelando una costante spinta politica verso un assetto giudiziario più subordinato al potere esecutivo.
Oggi tale proposta di modifica torna prepotentemente come “riforma costituzionale, e tra l'altro viene presentata dallo stesso ministro che la va a illustrare come riforma blindata in Parlamento. Che significa "riforma blindata"? Anche rispetto al cambiamento della Costituzione, forse si vuole dire che è inutile perfino il dibattito parlamentare?
Da sinistra: Oliviero Diliberto, Raffaele d’Alfonso del Sordo e Nino Di Matteo
Il ruolo etico e la vera missione del giurista
“L’essenza più vera del nostro ruolo non è quella di esercitare un potere ma quella di servire la collettività” ha detto il magistrato ricordando la profondità del ruolo richiesto ai giuristi: “Il primo consiglio che darei è quello di ricordarci che dietro una carta c'è una persona, che dietro una controversia banale, quale può essere quella per il possesso di un terreno, spesso ci sono dei grandi problemi familiari, che dietro ogni imputato, forse anche quello che risponde di omicidio o di strage, comunque c'è un uomo che tu devi punire severamente se le prove lo dimostrano, ma che come uomo non devi mai mortificare. Cioè, ricordarsi che il diritto non è soltanto applicazione di regole scritte o non scritte, ma è un bisturi che si deve utilizzare tenendo sempre presente che dietro ogni pezzo di carta, ogni fascicolo, c'è un uomo, un dramma. Nel momento in cui noi perdiamo di vista, ed è un rischio che tutti noi giuristi corriamo, perdiamo di vista l'uomo che sta dietro il caso, diventiamo molto aridi e la nostra attività si allontana da quella che è la giustizia”.
Il magistrato Nino Di Matteo ha esortato i ragazzi a non farsi “mai omologare, di non cedere mai alla rassegnazione, di battervi per le vostre idee, per i vostri sogni, per le vostre speranze, a qualunque costo. Io sono convinto che, per esempio, a quanto attiene proprio all'argomento della lotta alla mafia, se un giorno potranno realizzarsi i sogni e le speranze di Giovanni Falcone, che diceva "la mafia è un fenomeno umano e, come tutti i fenomeni umani, ha avuto un inizio e avrà una fine", quella fine della mafia, del sistema mafioso, noi la potremmo vedere grazie ad altri fattori principali, cioè una rivoluzione culturale che deve partire da noi, una rivoluzione culturale che deve partire dal basso, che deve partire soprattutto dai giovani e che è una rivoluzione culturale che passa dal rifiuto di tutte quelle mentalità, di quella forma mentis che costituisce l'humus su cui cresce la mentalità dell'appartenenza; mi riferisco alla mentalità del favore, della raccomandazione, alla mentalità lobbystica, per non dire, in certi momenti e per certi versi, massonica, che pervade l'intera struttura sociale del nostro Paese”. “Quando io avevo la vostra età” - ha continuato - “mi sono appassionato all'idea di un giorno poter lavorare in giurisprudenza e di poter diventare magistrato, non perché, vi dico la verità, aspirassi a scrivere delle belle sentenze o ad essere chiamato dottore o consigliere, ma perché io, da palermitano che vivevo in quel momento a Palermo, avevo visto l'azione che, in quel momento, il pool antimafia di Palermo stava portando avanti, il riscatto anche sociale, il riscatto culturale della mia terra”.
“Io sono sempre stato convinto che la vera rivoluzione, il vero progresso non sarebbe nel cambiare la Costituzione, ma finalmente di applicarla”.
La vera natura della mafia
“La mafia non è soltanto e non è principalmente una questione di ordinaria criminalità” - ha detto il magistrato - “Se fosse ordinaria criminalità, benché organizzata, sarebbe stata sconfitta. Noi nel nostro Paese facciamo i conti con la questione mafiosa da almeno 160 anni. Sono stati istituiti in questi 160 anni credo dalle 16-17 commissioni parlamentari. E ancora facciamo i conti con la mafia. Dobbiamo allora capire una cosa: la lotta alla mafia è una questione di tutela della libertà, della dignità, della Costituzione, che sono quotidianamente offesi dal sistema mafioso. Contrastare la mafia, contrastare il sistema mafioso e quello corruttivo significa lottare per la libertà e la democrazia nel nostro Paese”.
Nino Di Matteo ha sottolineato che in Italia la mafia ha ucciso numerosi magistrati, ufficiali delle forze dell’ordine, politici, giornalisti e imprenditori, un fenomeno senza eguali nel mondo. La vera forza di Cosa Nostra, come ammetteva lo stesso Totò Riina, non è stata la violenza, ma la capacità di tessere e consolidare rapporti con il potere politico, istituzionale ed economico. Il sostituto procuratore ha così ribadito che lo Stato, pur arrestando mafiosi, non ha ancora pienamente compreso la necessità di recidere questi legami per sconfiggere davvero la mafia.
Basti ricordare anche le storie delle stragi mafiose, mai raccontate con sufficiente completezza e ridotte ad una semplice lotta tra buoni e cattivi. Gli attentati del 1992-1993 non furono solo vendette mafiose, ma rispondevano a una strategia più ampia. In particolare, nel 1993 gli attacchi cambiarono obiettivo: non più singoli magistrati o funzionari, ma la popolazione, con bombe a Firenze, Roma e Milano; i processi che si sono susseguiti hanno fatto emergere degli elementi che indicano il coinvolgimento di soggetti esterni a Cosa Nostra, sia nella fase ideativa che organizzativa, suggerendo un intreccio tra mafia e poteri occulti.
Foto by Facebook/Luca Ceccherelli
Di Matteo ha esortato i giovani a informarsi autonomamente sulla mafia, leggendo sentenze e seguendo processi, come quelli raccontati da ANTIMAFIADuemila. Questo perché la lotta alla mafia, ha spiegato, non può essere solo repressione giudiziaria, ma deve diventare una priorità politica, cosa che finora non è mai avvenuta.
Eppure di esempi di alte connivenze ce ne sono stati nel corso della storia: le sentenze su Andreotti e Dell'Utri, per esempio, hanno attestato rapporti consolidati con Cosa nostra.
A conclusione dell’evento il professore Cosentino, con grande emozione, ha voluto ringraziare il sostituto procuratore dicendo che “è da queste cose che noi tutti, e anche io come studente in questo caso, impariamo. Dall'esempio. Dall'esempio di chi ci crede. Io ricordo gli occhi rossi di mio padre la sera che è stato ucciso Paolo Borsellino. Ricordo l'emozione che aveva nel non parlarmi di quell'episodio; ero piccolo, ma nel tornare a casa la sera mi spiegò cosa fosse successo. Ho capito negli anni che quello era il suo impegno contro la mafia: formare un figlio che la odiasse. E in questo senso, lei ci ha detto una cosa stasera. Sono nuovo, e benché qualcuno le abbia chiesto per favore di andare avanti ancora, bisogna ammettere che i limiti umani fanno parte di tutti quanti noi. Ecco, io mi sento di poter dire una cosa. Io ci sono. Io non sono nessuno. Ma mi impegno a educare i miei figli con un'educazione antimafiosa. E mi impegno, ogni volta che posso, nel parlare con i ragazzi, a trasmettere un insegnamento antimafioso. Perché, e cito Borsellino, se è vero che non tutti siamo mafiosi, tutti possiamo averne un pensiero. Ecco, questa è la cosa peggiore: avere una cultura mafiosa che ci permea nel sangue. Io credo che se lo chiediamo a loro, avremo un esercito di uccisioni. E noi siamo qui per lei. Quando avrà una difficoltà, si ricordi di questi giovani ragazzi che sono il nostro futuro, di un'aula piena, e se questo può darmi uno spunto per andare avanti, io credo che io ci sono, noi ci siamo”.
Foto © ACFB
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