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A Siena presentato il libro del generale e Anna Vinci. Bongiovanni: “Finché avremo dei Giuda nello Stato la nostra non sarà una democrazia

Gli anni della strategia della tensione, le stragi di mafia, i delitti politici, la P2, le trame della prima Repubblica e poi i depistaggi di Stato, le delegittimazioni. Tutto questo, e molto altro, è racchiuso nel libro "La strategia parallela - Il progetto occulto di assalto alla Repubblica" (Zolfo editore), presentato ieri a Siena in occasione del primo appuntamento della nuova edizione della rassegna letteraria “Pagine di Legalità”.





“La strategia parallela” è un volume intenso, uno spaccato di storia scritto da due testimoni di quegli anni tragici di instabilità: Michele Riccio e Anna Vinci. Il primo è il generale dei carabinieri - formatosi accanto a Carlo Alberto dalla Chiesa nella caccia a mafiosi e terroristi - che raccolse le confidenze del pentito Luigi Ilardo (il più importante collaboratore di giustizia di sempre insieme a Tommaso Buscetta); la seconda è la biografa (nonché amica intima) di Tina Anselmi, presidente della commissione d’inchiesta sulla Loggia P2.


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Giuseppe Galasso introduce la serata


Quelle dei due autori sono esperienze di vita completamente distinte - lui militare (oggi in pensione), lei scrittrice - che però in qualche modo si fondono perfettamente nelle pagine di un libro-verità che svela le dimensioni di un potere occulto tuttora in piedi di cui sono stati testimoni. Un lavoro durato più di due anni dal quale, prima di ogni cosa, Anna Vinci è riuscita a risaltare la tenacia (e la solitudine) di un uomo dell’Arma, un servitore dello Stato, che nello Stato non ha mai smesso di credere. Nemmeno quando tutto portava alla sfiducia più totale verso l’uniforme che indossava. Michele Riccio, infatti, rispondendo alle domande del moderatore Giuseppe Galasso (referente senese del movimento Agende Rosse e co-organizzatore della rassegna) ha spiegato al pubblico del Santa Maria della Scala come fin dai primi momenti della sua carriera, cominciata negli anni ’70, ebbe a scontrarsi con l’influenza di forze occulte attente ad ostacolare le attività più sensibili che conduceva. Un lavoro di intralcio sottile e continuo, culminato con la mancata cattura del super latitante Bernardo Provenzano a Mezzojuso e poi con l’assassinio di Luigi Ilardo (una delle più grandi sconfitte dello Stato italiano”, l’ha descritta il generale), l’ex mafioso che condusse, insieme a Riccio, il Ros dei carabinieri a un passo dalla cattura del boss stragista. 


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Michele Riccio


Una vicenda di cui parla anche il libro e che si inserisce nella trattativa tra Stato e mafia”, come ha ricordato in apertura Galasso. “Sono venuto a conoscenza di un certo mondo che esisteva e che ha condizionato direttamente le mie indagini. È stato nei primi frangenti di crescita professionale che mi sono reso conto della sua esistenza. Ma è stata sempre una conoscenza parziale e graduale quella che ho fatto. All’inizio non l’ho percepita, anche perché era difficile percepirla. Era impalpabile”. “Tante volte era il consiglio. Tante volte era un’informazione”, ha ricordato Riccio. “Tante volte era meglio non impegnarsi su un fronte. Tante volte era meglio non tenere conto determinate situazioni”. Ma “andando avanti e vivendo intensamente determinate esperienze mi sono piano piano reso conto”. Questi condizionamenti, che Riccio riscontrava all’interno dell’Arma, da parte di colleghi e superiori, ma anche da parte di alcuni magistrati sono stati progressivi.


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Più saliva di grado, più alzava l’asticella delle inchieste che conduceva e più le pedine della “strategia parallela” si manifestavano.  “Però il rispetto che si aveva verso quel magistrato o quel superiore ci imponeva di andare avanti. Anche perché avevo degli esempi come il generale dalla Chiesa che per me sono stati formativi e anche illuminanti”, ha confessato. “Quando si toccavano determinati filoni, tutto diventava complicato, tutto diventava formale, bisognava stare attenti, arrivavano mille consigli. E ha condizionato sempre tutto, fino alla fine della mia carriera”, ha affermato con amarezza ricordando le prime indagini sui terroristi neri e poi le confessioni affidategli da Ilardo su mafia e politica. “Questo mondo tutt’ora c’è ed è ancor più forte di prima”, ha assicurato Michele Riccio. “Parlo di fatti, ed è così anche nel libro”, ha aggiunto. Michele Riccio, come altri, a un certo punto della sua vita ha cercato di mettersi di traverso a questo “sistema parallelo”.


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L'intervento di Anna Vinci
 

La doppia lotta di Michele Riccio

Riccio ha testimoniato e denunciato le ingerenze di alcuni vertici dell’Arma dei Carabinieri in inchieste scabrose riguardanti mafia-politica-massoneria restando dentro l’Arma, quindi dentro la macchina dello Stato. Un coraggio mal digerito da alcuni colleghi, come l’ex generale Mario Mori e l’ex colonnello Mauro Obinu che poi lo querelarono per calunnia (caso archiviato) quando Riccio li accusò di aver volontariamente “mancato” l’arresto di Provenzano nel 1995. “Quello che veramente fa impressione è come Michele Riccio e Tina Anselmi sono stati nei luoghi di maggior potere, Riccio era nell’Arma e Anselmi in Parlamento, e hanno avuto la forza di rimanere lì, di continuare a credere nello Stato”, ha affermato Anna Vinci, intervenuta poco dopo il generale.


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Angelo Garavaglia Fragetta


Riccio e Anselmi “hanno creduto nella Costituzione e hanno combattuto due battaglie. Contro i cattivi e allo stesso tempo, soprattutto per quanto riguarda la P2, contro questi sommovimenti”. Un aspetto, questo, sottolineato anche da Angelo Garavaglia Fragetta, coordinatore nazionale del Movimento delle Agende Rosse (un altro degli ospiti della serata insieme a Salvatore Borsellino, ai giornalisti Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari e all’avvocato Fabio Repici). "Riccio ha dovuto combattere su due fronti: da un lato la mafia, dall'altro uno Stato parallelo che non solo gli ha messo i bastoni tra le ruote, ma ha anche danneggiato il corso della sua vita”.


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I “giuda” nelle istituzioni

A seguire è stato il turno di Giorgio Bongiovanni, direttore di ANTIMAFIADuemila, che ha ricordato l’incontro, nei primi anni 2000, con Michele Riccio avvenuto insieme al vicedirettore del giornale Lorenzo Baldo. “Io e Lorenzo Baldo iniziammo a parlare con un colonnello dei carabinieri che vedevamo provato, distrutto, forse tradito ma che col suo alto senso civico voleva fare delle dichiarazioni a Palermo di fronte al pubblico ministero Nino Di Matteo”, ha rammentato Bongiovanni. Di fatti, Riccio fu poi tra i principali testi di accusa al processo a Mori e Obinu, imputati e poi incredibilmente assolti per la mancata cattura di Provenzano nonostante i fatti emersi a dibattimento. Quella della mancata cattura del latitante fu una delle cause che portarono all’uccisione di Ilardo a Catania il 10 maggio 1996, avvenuta alcuni mesi dopo l’incontro nelle campagne di Mezzojuso tra Ilardo e Provenzano, al quale sarebbe dovuto seguire il blitz del Ros.


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L'intervento da remoto del direttore di ANTIMAFIADuemila, Giorgio Bongiovanni


Pochi giorni dopo il 10 maggio, Ilardo avrebbe dovuto ufficializzare la sua collaborazione con la giustizia dopo aver fatto da infiltrato in Cosa Nostra per conto dei carabinieri. “Chi ha ucciso Ilardo non è la mafia, ma carabinieri traditori. Poi, che l’ordine sia arrivato da ‘Piddu Madonia’, come il processo ha stabilito, è vero, ma chi ha dato la soffiata ai mafiosi? La procura di Caltanissetta e/o i carabinieri che sapevano di questa collaborazione di Ilardo”, ha denunciato Bongiovanni. Il direttore di ANTIMAFIADuemila ha poi ricordato gli scandali in cui sono incappati vertici dell’arma negli anni ’90: la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, la mancata cattura di Provenzano, la trattativa Stato-mafia. Mancanze, trattative, depistaggi. “Tutto inizia da lì”, ha affermato.


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E ancora. “Noi abbiamo seguito tutte le udienze del processo trattativa Stato-mafia e la cosa che ci ha più sconcertato e che mi ha davvero avvilito è che il dottore Gianni De Gennaro rinnegava il rapporto che scrisse nel 1994 (all’epoca era capo della Dia, ndr) quando riferì che c’era una trattativa tra lo Stato e la mafia. Perché l’ha dimenticato?”, si è domandato. “E perché il dottor Gian Carlo Caselli, sottoposto alle domande del pm Nino Di Matteo al processo Mori-Obinu, rispondeva che aveva male alla testa, che non aveva capito o che non si ricordava. Io ho visto l’amarezza del dottor Di Matteo quando i più preziosi collaboratori dello Stato avrebbero dovuto riferire su quella vicenda e invece hanno fatto come Pilato, se ne sono lavati le mani”. “Noi dobbiamo avere il coraggio di dire - se amiamo veramente la Costituzione Italiana - che i peggiori nemici dei migliori servitori dello Stato, come il colonnello Riccio, come i procuratori Nino Di MatteoGiuseppe LombardoSebastiano ArditaNicola Gratteri ed altri, sono i magistrati”.


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Traditori, imbelli e codardi, che hanno ostacolato i loro colleghi”. “Per esempio - ha aggiunto - i magistrati di Caltanissetta che chiesero ed ottennero la defenestrazione dal pool stragi di Nino Di Matteo. Non lo chiesero i mafiosi dalle carceri, lo chiesero i colleghi di Nino Di Matteo che stavano indagando, come lui, sulle stragi di Capaci e via d’Amelio. Sono loro i veri traditori, sono loro i veri colpevoli delle stragi”, ha dichiarato. “Chi ha messo gli ostacoli al generale Riccio non furono Provenzano o Riina ma i carabinieri parigrado o superiori del colonnello”. “Quindi - ha affermato - finché abbiamo dei Giuda dentro le istituzioni la nostra non sarà mai una vera democrazia. Devo dire poi - ha concluso - che Mario Mori e gli altri non hanno fatto di testa loro ma hanno ubbidito a persone che vogliono che il nostro paese diventi una colonia degli Stati Uniti d’America. Concetto, quest’ultimo, sottolineato anche dall’autore del libro”.


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Salvatore Borsellino in collegamento Skype

Allarme Ddl Sicurezza, la “strategia parallela” che continua

La parola è quindi passata a Salvatore Borsellino, fratello di Paolo e fondatore delle Agende Rosse. Quest’ultimo ha sottolineato come la “strategia parallela” sia, in qualche modo, tuttora all’attivo. Il riferimento è all'art. 31 del Ddl sicurezza, ieri in discussione al Senato, che trasformerebbe il nostro Paese in uno stato di polizia. “Contro questo decreto - ha affermato il fratello del giudice Borsellino - si sono levate parecchie voci e sono state indette numerose manifestazioni, ma nessuno ha puntato l'attenzione su questo articolo che darebbe ai servizi segreti la possibilità di compiere, sotto la copertura della legge, tutto quello che fino ad oggi hanno sempre fatto nascostamente e con la possibilità di essere chiamati a rispondere alla magistratura, anche se spesso questi processi si sono conclusi con assoluzioni al termine dei gradi di giudizio, per l'evidente motivo che lo Stato non può processare sé stesso”.


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Il decreto - ha sottolineato ancora Borsellino - dà la possibilità ai servizi di infiltrarsi nelle organizzazioni terroristiche, di reclutare uomini, di mettersene a capo, fino anche a uccidere, rispondendone soltanto al capo del governo. Non ci sarà più bisogno di un protocollo Farfalla per infiltrarsi nelle carceri senza risponderne alla magistratura, per suicidare testimoni scomodi. Forse anche Moro potrebbe essere ancora vivo se le Brigate Rosse non fossero state infiltrate dai servizi o da chi le manovrava”. Il fondatore delle Agende Rosse, nonostante l’età, sta conducendo una battaglia contro questo Ddl “mettendo insieme tutte le associazioni dei familiari delle vittime delle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese, perché credo che sia indispensabile avere una voce comune per poter contrastare le manovre del governo e della stessa convinzione dell'antimafia di cancellare la responsabilità della versione nera dalla storia del nostro Paese”.


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I due mondi della “strategia parallela”

Del Ddl sicurezza ha parlato anche l’avvocato Fabio Repici, legale di Borsellino e di altri famigliari di vittime di mafia. Secondo il legale, l’art. 31 presente nel disegno di legge è una norma “criminofila che io ho ribattezzato ‘norma falange armata’ perché consente ai servizi segreti di infiltrare soggetti nelle organizzazioni criminali come criminalità mafiosa e avversione politica, cioè le eversioni neofasciste”. “Non solo di infiltrarli - ha puntualizzato l’avvocato - ma perfino di portarli a dirigere le organizzazioni; cioè i servizi di sicurezza possono perfino far diventare il capo di Cosa Nostra un proprio emissario, purché abbiano l'autorizzazione del governo nelle persone del Presidente del Consiglio o del sottosegretario alla presidenza del Consiglio”. Venendo invece al cuore del libro presentato a Siena, Repici ha ricordato che “ci sono stati, nel nostro Paese, e ci sono oggi nel nostro Paese, soggetti istituzionali che hanno cercato un obiettivo che era difforme da quello imposto dalla Costituzione repubblicana”.


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L'intervento di Fabio Repici, avvocato e amico di Salvatore Borsellino


Questa - ha spiegato - è la strategia parallela raccontata dal colonnello Riccio e da Anna Vinci. Rispetto a questo, siamo rimasti in pochi, forse, a cercare di difendere la verità dalla riscrittura della storia. Questi soggetti sono classe di governo, in questo momento, soggetti presenti tuttora negli apparati istituzionali”. Secondo il legale la strategia parallela è composta da “due mondi che, secondo quello che ognuno dovrebbe pensare, dovrebbero essere sempre distanti e incompatibili e che, invece, hanno camminato in assoluta sinergia, come su un binario appunto parallelo, ma per cercare di raggiungere un risultato, cioè la gestione del potere. Da un lato operavano organizzazioni criminali, e dall'altro, appartenenti alle istituzioni, il potere ufficiale. Questa, se proprio la devo tagliare con l'accetta, è la strategia parallela raccontata nel libro. E allora mi viene da dire che il libro non è solo un racconto di storia, ma anche un esercizio di cronaca”.


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In questo senso, “il colonnello Riccio non solo ha prestato fede al proprio giuramento, alla Costituzione, alla Repubblica e alle leggi, ma ha prestato fede alla cosa più grande che una persona deve avere, e cioè alla propria dignità di uomo e di cittadino”. Una fede che è costata cara all’autore del libro. “Il colonnello Riccio, come rappresaglia per le attività che ha svolto, ha pagato il prezzo di essere arrestato per il ‘delitto di investigazione’”, ha detto Repici in merito al processo per calunnia intentato da Mori e Obinu. “L’obiettivo di quell'arresto era cercare di occultare i risultati delle sue indagini”. In chiusura di intervento, sempre a riprova dell’esistenza di una strategia parallela che fa il paio con un tentativo di riscritto della storia (e delle sentenze) su stragi ed eversione, Fabio Repici ha denunciato il silenzio del governo (e della maggioranza) rispetto alla condanna definitiva pronunciata questa settimana dalla Cassazione contro il terrorista Gilberto Cavallini per la strage di Bologna.


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Cavallini - ha ricordato Repici - è la proiezione di quegli stessi gruppi criminali neofascisti protagonisti della prima fase della strategia della tensione, le bombe da Piazza Fontana in poi nel 1969 e negli anni '70. Gilberto Cavallini è il frutto malato di quelle generazioni, ma Gilberto Cavallini è pure un soggetto che aveva relazioni con apparati che, a un certo punto, quando furono scoperti, furono chiamati ‘anello’ o ‘noto servizio’, cioè apparati deviati in connessione con soggetti istituzionali”. Eppure, da parte della maggioranza parlamentare “non c'è stata una parola” sulla sua condanna.


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Domande senza risposta

A chiudere i lavori Aaron Pettinari, capo redattore di ANTIMAFIADuemila. “Il libro parla di un pezzo di storia ma anche di un pezzo di storia di vita vissuta in prima persona. Non è un romanzo criminale ma fatti veramente accaduti e ben scritti da Anna e Michele che ci hanno messo la faccia. Parlare di queste storie non è scontato e diventa ancor più importante farlo oggi proprio perché dobbiamo capire bene”, ha affermato il giornalista. Pettinari ha poi fatto uno spaccato attuale sulla lotta alla mafia. “Oggi ci troviamo nel 2025 con boss stragisti come Giovanni Formoso che escono in permesso premio.


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Aaron Pettinari


Questo forse è il risultato di patti e di cambiali che vengono pagate oggi. I risultati di queste trattative non li hanno visti Bernardo Provenzano e Totò Riina ma forse li vedranno i Graviano, i Madonia, i Biondino, gli Aglieri. È veramente stata sconfitta la mafia?
”, si è chiesto. “Forse no - ha chiosato -. Sono stati arrestati stragisti, ma ci sono stati 25 anni di latitanza di Riina, 40 anni di Provenzano 30 anni di Messina Denaro. Mi domando se Matteo Messina Denaro sia stato arrestato perché era arrivato a fine corsa, come Bernardo Provenzano. Entrambi molto malati e quindi non più in grado di sostenere la loro latitanza. Cos’è cambiato in questi 30 anni. La lotta alla mafia non è finita perché non sappiamo nulla di queste latitanze, non sappiamo chi ha trafugato le agende di Borsellino, di Falcone e di dalla Chiesa. Non sappiamo chi sono i mandanti esterni. A tutte queste domande bisogna dare una risposta. È necessario capire il nostro passato per capire che succede nel nostro presente”.

Foto © Piero Di Stefano

Elaborazione grafica di copertina by Paolo Bassani

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