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A Roma la presentazione del libro di Saverio Lodato con Di Matteo, Scarpinato, Li Gotti, Baldo e Bongiovanni

Cinquant’anni di mafia vissuta e narrata dal giornalista Saverio Lodato (il cui intervento integrale è pubblicato a parte). Cinquant’anni di mafia che sono anche cinquant’anni di resistenza al sistema politico-mafioso-imprenditoriale che continua a governare l’Italia, e non solo. Questa antimafia, quella vera, lontanissima da passerelle della retorica, ieri era sotto gli occhi delle centinaia di persone venute al teatro Quirino di Roma per assistere alla presentazione dell’ultimo libro di Saverio Lodato, appunto: Cinquant'anni di mafia (edito da Bur-Rizzoli).





Nessuna resa, questo è il messaggio dei vari ed illustri relatori della serata organizzata da ANTIMAFIADuemila. Lo ha ribadito l’autore, ma anche il direttore e il vice direttore del nostro quotidiano Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo. “A chi ci guarda e a chi ci intima di fare un passo indietro noi siamo qua costi quel che costi con la nostra faccia”, ha detto Bongiovanni.
Nessun passo indietro, dunque, nessuna bandiera bianca. Non si arrende Nino Di Matteo, nonostante gli ostacoli e gli attacchi subiti, nel suo lavoro di ricerca della verità sulle stragi negli uffici della direzione nazionale antimafia a Roma.


Non si arrende Salvatore Borsellino - malgrado l’età, i depistaggi e i 32 anni trascorsi - nel pretendere verità sull’attentato che strappò la vita al fratello Paolo. Non si arrende il senatore Roberto Scarpinato nel battagliare in aula, a colpi di emendamenti, contro le riforme abominevoli proposte dalla maggioranza in tema giustizia. E non si arrende nemmeno l’avvocato Luigi Li Gotti nel denunciare i disagi e le preoccupazioni dei collaboratori di giustizia, completamente abbandonati dallo Stato.


Trentatré anni dopo la pubblicazione del primo numero della collana di Saverio Lodato sulla storia della mafia nel nostro Paese sembra che l’Italia sia rimasta immutata. O se è mutata, è mutata in peggio. Oggi, come allora, la criminalità organizzata spadroneggia, fa affari, e la ricerca della verità su stragi e delitti eccellenti di mafia e terrorismo, soprattutto quelli che vedono il coinvolgimento di pezzi dello Stato, è cosa inammissibile per il potere.


E chi si impegna con rigore nell’indagare - sia in sede giudiziaria, che civile, che parlamentare - su tali fatti finisce nel tritacarne del sistema, che agisce con delegittimazioni e “mascariamenti” di sorta. “Si muore quando un dito indice, che proviene dall'interno delle Istituzioni, ti offre alla vendetta mafiosa e ciò avviene non soltanto se tu fai un passo avanti ma se quelli che restano accanto fanno un passo indietro”, diceva Giovanni Falcone nel lontano 1991 alla presentazione del libro “Dieci anni di mafia”. Un evento storico rievocato ieri con una mostra di foto d'archivio esposta all'ingresso del teatro Quirino.





Attualmente, un indice puntato contro se lo ritrova il senatore Scarpinato, che appena insediatosi in Commissione Antimafia ha presentato una relazione dettagliatissima sui misteri ancora da chiarire rispetto alla strategia stragista di Cosa nostra, e non solo. Lo stesso Scarpinato che, proprio per il bagaglio di conoscenza acquisito in anni di magistratura e per i suoi scrupolosi lavori di inchiesta, è considerato un pungolo da debellare a Palazzo San Macuto e pertanto viene messo periodicamente alla berlina dai colleghi di Commissione della maggioranza, che da oltre un anno cercano di parcellizzare e riscrivere la storia delle stragi e tentano di ricondurre la bomba di via d’Amelio al rapporto “Mafia Appalti”.


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Di Matteo si schiera in difesa del senatore Scarpinato

Ieri sera, proprio su questo tema di forte attualità, il pm Nino Di Matteo non ha mancato l’occasione per sottolineare l’impegno dell’ex procuratore generale di Palermo schierandosi contro gli attacchi della Commissione che vorrebbe escludere dai lavori il senatore. “Roberto Scarpinato ha sempre incarnato la figura intanto di un vero magistrato, indipendente, coraggioso, distante da ogni tentazione di opportunistica adesione ai desiderata del potere, capace, a mio avviso come pochi altri, di una visione alta dei fenomeni criminali più complessi. Scarpinato ha portato tutto questo anche in questa fase della sua vita caratterizzata dall'impegno politico, con una continuità di intenti e di condotte”, ha esordito Di Matteo sul punto. “È per questo che io oggi non ho dubbi nel ritenere che la invocata richiesta di estromissione del senatore Scarpinato da quella commissione risponde strumentalmente alla necessità di neutralizzare chi non si rassegna ad accettare che la strategia stragista venga definitivamente e in modo rassicurante per l'opinione pubblica archiviata come frutto esclusivo di un delirio di onnipotenza di Salvatore Rina e magari di qualche imprenditore colluso in odore di mafia”.


Secondo il sostituto procuratore nazionale antimafia “estromettere Roberto Scarpinato dalla commissione antimafia, prima ancora cercare di delegittimarlo con argomenti che non stanno in piedi, risponde alla esigenza di evitare qualsiasi approfondimento in direzione di possibili causali delle stragi legate alla destra eversiva, legate alla trattativa Stato-mafia, legate ai rapporti con movimenti politici all'epoca delle stragi in fase di formazione e quindi attraverso Dell'Utri anche con Silvio Berlusconi e con l'allora nascente movimento politico Forza Italia”. Il magistrato palermitano ha ribadito la necessità di adottare il metodo giusto nella ricostruzione di fatti complessi, proprio come ha fatto Saverio Lodato in “50 anni di mafia”.


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Un libro che, ha ricordato, “collega i fatti tra loro in un contesto più ampio nel quale le questioni criminali si intrecciano inevitabilmente condizionandole pesantemente o venendo da esse pesantemente condizionate con le questioni e dinamiche politiche”. Sullo spunto del libro Di Matteo ha parlato dell’importanza di “avere una visione unitaria di quanto accaduto”. “È necessaria un'ottica di analisi complessiva che tenga conto del collegamento tra un episodio criminale e gli altri, che tenga conto anche dell'evoluzione in quel momento del quadro politico nazionale e internazionale in quel periodo”. “Estrapolare da quella teoria di stragi la sola strage di via d’Amelio, addirittura concentrarsi soltanto con riguardo alla strage di via d’Amelio, soltanto su una pista quella dell'asserito interessamento di Paolo Borsellino allo sviluppo eventuale del rapporto a mafia appalti, di fatto costituisce un intralcio alla verità”. E ancora. “È un gravissimo errore concentrarsi soltanto su una delle sette stragi, come se fosse completamente avulsa dalle altre”.


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Scarpinato: “Io e de Raho abbiamo già la valigia in mano”

Quindi è stato il turno di Roberto Scarpinato che dopo aver fatto una disamina attenta sul sistema di potere politico-mafioso presente tuttora nel nostro Paese - citando, oltretutto, i parlamentari della borghesia mafiosa e le influenze che continuano ad avere a Palazzo e nelle agende politiche - si è concentrato sulla guerra che la Commissione antimafia, a partire da Chiara Colosimo, ha dichiarato contro la sua persona sollevando una illegittimità per conflitto di interessi rispetto alla sua presenza a Palazzo San Macuto. “Quando si è costituita questa commissione antimafia io sono rimasto molto perplesso perché la televisione ha mandato un filmato in cui si vedeva Colosimo che riceveva, tra gli altri, anche il generale Mario Mori e all'uscita di questo incontro uno di quelli che aveva partecipato all'incontro ha detto ai giornalisti: ‘Abbiamo posto un problema di conflitto di interesse di quelli che stanno qui dentro’. Quindi prima ancora che iniziassero i lavori hanno posto il problema che io avevo un conflitto di interesse”, ha esordito l’ex magistrato. “Poi il generale Mario Mori è andato in una trasmissione e in una intervista ha detto che lui si tiene in forma perché deve vendicarsi dei magistrati che l'hanno processato. In un paese normale questo non è un linguaggio di un uomo delle istituzioni ma qui è normale”.


Dopodiché, ha ricordato, “ho presentato una memoria di 57 pagine in cui ho indicato sulla base dell'esperienza di questi anni tutti i buchi neri delle stragi di Capaci, di via d’Amelio, di via dei Georgofili, di Milano, le stragi che hanno fatto, quelle che sono fallite, come quella all' Olimpico e tante altre. Ho detto questi sono tutti i buchi neri, ho indicato i testimoni che dovevamo sentire, i documenti da acquisire”. Ma, ha sottolineato, è stata “tutta carta straccia”. “Non ne hanno sentito uno”. “Sono passati due anni e l'unico impegno di questa commissione parlamentare antimafia non sono i mafiosi ma i magistrati antimafia. Siamo noi, io e de Raho (il deputato del M5S, ex procuratore nazionale antimafia, ndr), che da due anni teniamo banco ma non come consulenti, come esperti, come personaggi pericolosi di cui bisogna liberarsi perché noi siamo in conflitto di interesse. E in questo io devo dire che più ci penso, più hanno ragione perché io sono in conflitto con gli interessi dei mafiosi e degli amici politici dei mafiosi e questo non lo posso negare”, ha detto sorridendo.


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Quindi la commissione parlamentare antimafia, che è governata da questi soggetti, ha cambiato missione sostanzialmente. Si occupa a tempo pieno di liberarsi dei magistrati antimafia che in questi trent'anni si sono occupati dei loro amici e che insistono che il dire e affermare che le stragi le hanno fatte solo Riina & Company è una falsità indegna e che bisogna cercare per quanto è possibile che almeno la Commissione antimafia dia una risposta di verità a questa domanda. Ma non ne vogliono sentire. Stanno correndo per fare una legge fotografia, una legge sul conflitto di interesse”. A fine intervento, rispetto alla sua possibile estromissione dall’Antimafia Scarpinato ha affermato, con tono di sfida, di essere “già pronto, ho la valigia in mano. Io e de Raho saremmo buttati fuori”. E ha concluso citando l’introduzione intitolata “Uomo della strada” del libro di Lodato. “Cosa possiamo dire all'uomo della strada? L'uomo della strada una risposta ce l'ha e viene da un vecchio detto siciliano. ‘Il pesce puzza dalla testa e in questo periodo il pesce puzza moltissimo’”.


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Li Gotti: “Vogliono cancellare la parola mafia”

Dopo Scarpinato è stato il turno di Luigi Li Gotti, avvocato di collaboratori di giustizia di altissimo rilievo come Giovanni Brusca, Gaspare Mutolo e Francesco Marino Mannoia. Il legale ha commentato la sentenza della Cassazione sulla trattativa Stato-mafia che un anno fa ha assolto tutti i carabinieri del Ros imputati (Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni) “perché il fatto non costituisce reato”. Indubbiamente anche questo tema specifico “si collega ad una fase di riscrittura della storia. La sentenza della Cassazione  ha sostenuto giuridicamente questa tesi: ha detto che la trattativa ci fu, perché la sentenza attesta l'esistenza della trattativa, ma non esiste il reato di trattativa”.


Il reato è un altro, il reato è l'aver tentato o l'aver condizionato lo Stato attraverso le minacce. E allora, dice la Cassazione, chi era o chi doveva essere il veicolo delle minacce? Mori, De Donno e Subranni, che avevano avviato i contatti con Ciancimino (Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso di Palermo, ndr). Ma visto che non c'è la prova che essi abbiano veicolato la minaccia allo Stato, vanno assolti. E Bagarella, conseguentemente, viene prosciolto perché il reato è prescritto. Perché si dice, Bagarella (Leoluca, ndr) ci ha provato a fare la trattativa”. “Allora a questo punto la risposta giudiziaria ad un periodo tremendo per il nostro paese in fondo non c'è stata”, ha affermato Li Gotti. E a questa mancata risposta giudiziaria “si vuole sostituire la commissione parlamentare antimafia che vuole riscrivere la storia dicendo che la giustizia non c'è riuscita e ora la verità la scriviamo noi. E rimane così il sigillo della commissione che potrà dire, perché questo è l'indirizzo, che la trattativa non ci fu, che lo Stato non fu coinvolto e che la strage di via d’Amelio nacque all'interno del palazzo, quindi non ci fu una trattativa”.


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Quindi è inutile che fantasticate e vi chiedete di fare tante domande, la risposta ve la diamo noi, fu una congiura di palazzo, ispirata da Giammanco (l’ex procuratore di Palermo, ndr), lo dicono chiaramente”, ha aggiunto. Un atteggiamento rassicurante che toglie ogni responsabilità a pezzi infedeli delle istituzioni nella vicenda. Secondo l’Antimafia, ha ricostruito il legale, “ci fu un intreccio di interesse tra mafia e apparati giudiziari deviati, ma oltre questo non c'è, lo Stato non c'entra niente, è immune, è immune da qualunque cedimento. Non ce ne sono misteri, è tutto così chiaro”, ha detto ironizzando. Infine, Li Gotti ha denunciato lo stato di abbandono in cui riversano i collaboratori di giustizia da alcuni anni. Uno stato di abbandono di cui ha precise responsabilità il Ministero dell’Interno. “Oggi i collaboratori di giustizia stanno subendo un ulteriore attacco, violentissimo, che porterà a delle conseguenze di totale fine del fenomeno”.




Borsellino: “Colosimo non è adeguata al suo ruolo”

Durante la conferenza è stato anche trasmesso uno stralcio dell’intervista realizzata da Aaron PettinariSalvatore Borsellino
Uno degli aspetti problematici evidenziati da Borsellino durante l’intervista con il caporedattore di ANTIMAFIADuemila è la foto che ritrae la Colosimo “mano nella mano, in atteggiamento confidenziale con Luigi Ciavardini”, ex membro dei NAR. “Questa consuetudine con un personaggio del genere - ha proseguito Borsellino - la riteniamo inadeguata”. E aggiunge: “Purtroppo, i fatti sono stati poi confermati da quanto accaduto in Commissione Antimafia.


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Colosimo ha concentrato l’interesse della Commissione solo sulla
strage di via d’Amelio, isolandola dalle altre, mentre noi riteniamo che la strage di via d’Amelio sia collegata ad altre, in particolare a quella di Capaci, dove fu ucciso Giovanni Falcone, e alle stragi successive: quella dei Georgofili a Firenze e le stragi di Milano e di Roma”.
Per Borsellino, queste stragi sono unite da una strategia eversiva comune volta a destabilizzare lo Stato italiano, incoraggiata da una “trattativa” tra Stato e mafia che ha portato a un'escalation di attentati, alimentando la convinzione, da parte della mafia, di poter ottenere vantaggi attraverso il terrore. “Purtroppo, questo governo e la stessa Colosimo - ha sottolineato Borsellino - stanno cercando di riscrivere la storia. Stanno tentando di cancellare il ruolo dell’eversione nera in queste stragi, che invece è fondamentale”.


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Un tentativo che, a suo avviso, è voluto da un certo tipo di potere politico, impegnato a minimizzare il ruolo dell'eversione nera, e aggravato dal fatto che le attuali autorità hanno raggiunto il loro potere grazie a eventi criminosi come questi. Borsellino ha anche commentato la recente scarcerazione di diversi boss mafiosi che non hanno mai collaborato con la giustizia. Una circostanza che, secondo il fratello del giudice assassinato insieme agli agenti della scorta in via d’Amelio, riflette ancora oggi la mancata risoluzione di questioni lasciate in sospeso dagli anni delle stragi, come il cosiddetto “papello” di Totò Riina, una lista di richieste che la mafia presentò alle istituzioni italiane.




Lunetta Savino legge il monito di Giovanni Falcone: “Come fate a non capire?”

Nella serata non sono mancati i momenti artistici, con la musica del sassofonista Nicola Alesini e le letture  dell’attrice Lunetta Savino, tratte dal libro di Saverio Lodato, che hanno intervallato i vari interventi. Particolarmente emozionante proprio il primo, che ha seguito il video dedicato a Giovanni Falcone alla presentazione di “Dieci anni di mafia”. “Ma come fate a non capire che se in questa regione sono stati assassinati procuratori della Repubblica, dirigenti della Squadra mobile, comandanti dei carabinieri, segretari di partito, capi di governo, imprenditori, giornalisti, cittadini qualunque, tutto ciò è il risultato di una strategia concepita e attuata da una struttura verticistica e monolitica, capace di avvalersi di una tradizione secolare e di rapporti strettamente intrecciati con ampi settori della società siciliana”, ha letto la Savino.


Conosceva segreti? Certamente, tanti. Conosceva regole comportamentali, strutture di pensiero? Conosceva l’humus di cui l’uomo d’onore si nutre sin da bambino, nei vicoli della casbah di Palermo o nelle casupole di Corleone? Certamente. Conosceva l’antropologia del mafioso quasi alla perfezione. Diversamente, come avrebbe fatto a piegare fino al pentimento colonne mafiose come Buscetta o Contorno, Calderone o Marino Mannoia? Era questo il segreto di Giovanni Falcone”. “Oggi Falcone è stato assassinato, con un agguato che dimostra ancora una volta una potenza militare micidiale. L’agguato dimostra due cose. Uno, Cosa Nostra esiste e considerava apertissimo il suo conto personale. Un’autentica vertenza, come si dice a Palermo, iniziata tanti anni fa, quando Falcone, per la prima volta e prima di tanti altri giudici, aveva davvero capito di che pasta fossero fatti gli uomini d’onore. Due, Falcone sapeva bene che il rapporto mafia-politica esiste, è strettissimo ed è la condizione essenziale che consente alla mafia di non essere semplice gangsterismo, guerra per bande, criminalità organizzata, anche se di alto livello. Negli ultimi anni della sua attività, volle dimenticare queste sue certezze sul rapporto mafia-politica? È molto probabile. Non dimentichiamo che a Palermo riuscì a totalizzare soltanto sconfitte, insuccessi personali, astio e antipatia da parte di molti dei suoi colleghi. Era andato a Roma? Non è bastato a salvarlo”. 


Foto © Paolo Bassani

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