In settimana la discussione al Senato sulla 'tagliola' dei 45 giorni per le captazioni
In settimana il Senato discuterà in prima lettura un Ddl di Forza Italia, a firma del senatore Pierantonio Zanettin, che di fatto punta a smantellare le intercettazioni, cioé il principale strumento investigativo nelle mani della magistratura. Se questa proposta diventerà legge, si potranno fare al massimo per 45 giorni, salvo si tratti di fatti di mafia e terrorismo. Per prorogare quel termine serviranno condizioni quasi impossibili.
Si pensi che la durata delle captazioni necessaria per portare a termine tantissime inchieste in Italia è di molto superiore, spesso servono alcuni mesi per raggiungere risultati che poi si rivelano fondamentali per la Giustizia.
Per il sostituto procuratore nazionale antimafia e già consigliere togato al Csm Nino Di Matteo, in un’intervista pubblicata oggi sul 'Fatto Quotidiano' il rischio in caso di approvazione del ddl è grande: anche indirettamente “verranno pregiudicate indagini per mafia, nonostante questi delitti siano esclusi dal ddl. La mafia, oggi, per perseguire i suoi obiettivi fa sempre più spesso ricorso al sistema corruttivo. Inoltre nell’esperienza giudiziaria è un dato acquisito che gravi fatti di criminalità organizzata siano venuti fuori da ascolti autorizzati per reati cosiddetti comuni, come per rapine, bancarotte, truffe allo Stato. È esperienza comune di tanti magistrati che, magari, cominciando a indagare su un appalto pubblico truccato abbiano poi scoperto, spesso a distanza di molti mesi dall’inizio delle intercettazioni, che quella gara era stata pilotata grazie o su richiesta di esponenti di criminalità organizzata. Questo per dire che la linea di demarcazione tra reati comuni e reati di mafia non è facilmente delineabile”.
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“Siamo in presenza - ha detto - di un ulteriore tassello di un quadro complessivo davvero preoccupante. Si va nella direzione della creazione di spazi di impunità sempre più ampi e questo riguarda sia i gravissimi reati da lei citati, ai quali aggiungerei anche gli omicidi e le violenze sessuali, per fare qualche esempio, sia i reati tipici dei colletti bianchi, dei politici e degli amministratori. Dopo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la sostanziale sterilizzazione del reato di traffico di influenze, la limitazione dell’unico strumento investigativo in grado di bucare il sistema corruttivo, da sempre fondato sulla omertà dei suoi protagonisti, costituisce l’ennesimo favore a corrotti, faccendieri e lobbisti”.
Inoltre, ha spiegato sempre Di Matteo, il limite di 45 giorni, come dimostrato dall’esperienza giudiziaria, è una “tagliola che pregiudica ogni possibilità di arrivare a una investigazione efficace” soprattutto per “le indagini più complesse e per gli indagati più abituati a eludere le intercettazioni”.
Ulteriore pesantezza verrà introdotta anche dal nuovo sistema di proroga che prevede di poter continuare ad ascoltare gli indagati dopo i 45 giorni solo in presenza di “elementi specifici e concreti”.
Questo, ha detto il magistrato palermitano, “vuol dire introdurre nel sistema una ulteriore complessità legata sostanzialmente alla difficoltà di definizione e classificazione di ciò che si può ritenere elemento specifico e concreto. Ogni motivazione di proroga diventerà motivo di scontro tra le parti e di perenne incertezza sulla utilizzabilità degli elementi acquisiti e pertanto avrà importanti conseguenze sugli esiti dei processi”.
Una giustizia a due velocità
Questo governo ha già abolito l’abuso d’ufficio ed ha accolto a braccia aperte la proposta di vietare la pubblicazione delle ordinanze di misura cautelare. Per Di Matteo “si sta limitando molto il controllo della legalità sulle modalità con cui viene esercitato il potere. Da una parte si limita la possibilità di pubblicare le intercettazioni, creando così uno scudo per i potenti nei confronti della libera informazione. Dall’altra, attraverso riforme come questa sulle captazioni telefoniche, lo scudo di quegli stessi potenti si estende anche nei confronti della magistratura”.
Camera dei deputati © Imagoeconomica
“Si sta andando - ha continuato Di Matteo sul ‘Fatto’ - verso la creazione di un sistema giudiziario a due velocità: per alcuni reati, tipica espressione delle condotte degli ultimi e degli emarginati o ad esempio reati collegati alla manifestazione del dissenso, si va in una direzione securitaria. Per altri delitti, ugualmente importanti perché costituiscono una costante violazione della Costituzione, si va nella direzione della creazione di uno scudo di protezione per chi li commette. E questo è grave, in un sistema dove il numero di detenuti in espiazione di pena definitiva per reati di corruzione o di altri delitti contro la Pubblica amministrazione sono davvero pochi rispetto ai 60 mila detenuti. Ciò vuol dire che o l’Italia è un Paese in cui il fenomeno corruttivo è stato debellato, ma così non è, oppure che questo tipo di condotte è sostanzialmente impunito. E mi pare che certe riforme, come quella di cui abbiamo parlato, vadano in questa direzione”.
Qual è la genesi di tutto?
“Ad avere uno sguardo di insieme sembra che molte di queste riforme siano la prosecuzione della visione della giustizia che risale a molto tempo fa, ai primi governi Berlusconi, ma anche prima. Forse rispetto a 30 anni fa queste riforme si stanno portando avanti con maggiore successo anche perché la magistratura non ha la stessa forza e non gode della stessa credibilità di 30 anni fa” ha concluso Di Matteo.
Fonte: ilfattoquotidiano.it
Foto di copertina © Paolo Bassani
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