L’ex Procuratore di Palermo critica lo stato di abbandono in cui riversano collaboratori e testimoni di giustizia
Proponiamo ai nostri lettori l’ultimo editoriale pubblicato su La Stampa dell’ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli. L’ex magistrato, in questo interessante articolo che condividiamo, condanna le condizioni emergenziali in cui versano oggi collaboratori di giustizia e testimoni di giustizia per colpa di misure illogiche e demolitrici riguardanti il sistema di protezione adottate negli ultimi anni dallo Stato.
Perché lo Stato non deve ostacolare i pentiti di mafia
Di Gian Carlo Caselli
Falcone diceva che i «pentiti» ci sono soltanto quando lo Stato dimostra di voler fare sul serio la lotta alla mafia. È evidente, infatti, che non si affida la propria vita, collaborando, a chi non merita fiducia. E quando si tratta di pentiti di mafia va sempre tenuto presente il fatto incontestabile che parlare significa, senza retorica, condannarsi a morte. Lo prova la storia stessa della mafia, segnata da una miriade di omicidi, diretti o trasversali, tutti con l’obiettivo di recuperare l’omertà, di bloccare le collaborazioni. Senza mai sconti di ferocia.
Merita quindi una forte, preoccupata attenzione quanto denunziato da Panorama e dal periodico online ANTIMAFIADuemila con un’intervista all’avvocato Luigi Li Gotti (storico difensore dei pentiti di mafia: da Buscetta a Marino-Mannoia a Mutolo): vale a dire che l’Agenzia delle Entrate, per recuperare spese legali e costi di mantenimento in carcere, ha deciso di confiscare quanto spetta ai pentiti con la «capitalizzazione» prevista dalla legge per finanziare il loro «progetto di vita» (casa, lavoro). È evidente che più nessun malavitoso deciderà di iniziare un percorso di cooperazione con la magistratura sapendo che, dovendo per motivi di sicurezza vivere con tutta una serie di pesanti ostacoli e limitazioni, alla fine si troverà senza avere più nulla, abbandonato come un cane in mezzo alla strada, esposto a rischi di ritorsioni. Sostiene giustamente Li Gotti che il governo dovrebbe fare un decreto in cui si dichiarano non confiscabili le somme in oggetto (poche decine di migliaia di euro). Altrimenti si torna pericolosamente indietro nella legislazione sui collaboratori di giustizia e l’istituto viene svilito da quelle stesse istituzioni che dovrebbero incentivarlo.
La mafia sul piano del contrasto investigativo-giudiziario pone il problema, primo fra tutti, di rompere la cortina di segreto che ontologicamente la avvolge. E i segreti si possono conoscere soltanto se c’è qualcuno, i pentiti appunto, che li racconta. Le ricostruzioni fornite da un collaboratore di giustizia sono una sorta di carica esplosiva all’interno della organizzazione criminale, che viene spaccata mettendone a nudo la parte più segreta. Così, l’efficacia delle indagini si moltiplica con risultati disastrosi per i mafiosi.
Si sente dire che i «pentiti» sono figure eticamente sgradevoli e odiose e non meritano tanti riguardi. Ma ragionando così applicheremmo anche noi il codice dell’omertà: insomma, ragioneremmo come i boss mafiosi vorrebbero. E poi, si dice ancora, sono «merce avariata». Ma si dimentica che hanno radicalmente rotto con il passato. E sono preziosi (dal punto di vista investigativo-giudiziario) proprio perché se non avessero commesso attentati ed estorsioni, se non avessero trafficato in droga, se non avessero truccato appalti, se in una parola non fossero stati mafiosi non conoscerebbero i segreti a cui gli onesti non riescono ad arrivare.
Giova allo Stato che i mafiosi abbiano interesse e perciò incentivazione a raccontare i segreti. Chi per pregiudizio va a testa bassa contro i collaboratori per screditarli tutti, se non per contrastarne addirittura la semplice esistenza, assume una posizione illogica e suicida. Solo la mafia ha titolo per tenere simili atteggiamenti, visti tutti i danni che le sono derivati proprio dai pentiti. Gli altri o non hanno capito o non vogliono capire. Talora in nome di interessi che niente hanno a che fare con la giustizia. Ravvisabili soprattutto quando si indagano anche le cosiddette relazioni esterne: le collusioni di personaggi «eccellenti» con l’organizzazione; le coperture di cui essa conseguentemente gode. Indagare su questo versante è indispensabile se si vuol davvero sconfiggere la mafia, altrimenti - dicono i siciliani - si «babbia», si gira a vuoto.
Ma quando si indaga oltre l’ala militare della mafia, ecco - puntuali ed inesorabili - le polemiche. Spesso un autentico linciaggio della figura dei «pentiti» e un coro di improperi ai magistrati che doverosamente li impiegano contro le blindature mafiose. «Pentiti» e magistrati nel coro di voci urlanti diventano di fatto categorie criminali.
Quella - cominciata subito dopo le stragi del ’92 - che era stata un’autentica corsa a fornire agli inquirenti elementi di conoscenza della realtà di Cosa Nostra sempre più precisi ed aggiornati, rischia ora, per tutte le mafie, di interrompersi a causa di quanto denunziato da Li Gotti. Per i boss che ancora continuano a delinquere - e sono tanti - sarebbe come il cacio sui maccheroni.
Tratto da: La Stampa del 27 Agosto 2024
Foto © Imagoeconomica
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