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L'intervento del Procuratore Capo di Prato alla presentazione del suo ultimo libro 'Pentiti'

"I collaboratori di giustizia rappresentano, hanno rappresentato e continuano a costituire, sia pur in modo meno consistente rispetto al recente passato, l'elemento dirimente per consentire allo Stato di raggiungere quegli straordinari risultati che negli ultimi quarant'anni sono stati ottenuti. Prima dei collaboratori di giustizia, i processi erano destinati, nella migliore delle ipotesi, alle assoluzioni, assoluzioni per insufficienza di prove".
Sono state queste le parole del procuratore capo di Prato Luca Tescaroli durante l'evento che si è tenuto presso Località Grave, 1, frazione di S. Giovanni, Polcenigo (PN) e organizzato dall'Associazione 'Il Sicomoro Aps' e da ANTIMAFIADuemila, cui è stato presentato il libro "Pentiti. Storia, importanza e insidie del fenomeno dei collaboratori di giustizia" (ed. Rubbettino).


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Durante la serata, scandita anche dalle letture degli attivisti del collettivo "Casa dei Giovani del Sole" Chiara Lautieri e David Marchi - l'autore ha dialogato con Luana De Francisco, giornalista del “Messaggero Veneto”, e Giorgio Bongiovanni, direttore di ANTIMAFIADuemila, moderava dal caporedattore dello stesso giornale Aaron Pettinari.
Tanti i cittadini presenti anche per dare il proprio sostegno nei confronti del magistrato, raggiunto recentemente da nuove pesanti minacce di morte.


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Ad inizio serata proprio Giorgio Bongiovanni ha letto un messaggio di solidarietà dal sostituto procuratore nazionale antimafia e già consigliere togato del Csm Nino Di Matteo:Caro Luca. Voglio esprimerti anche pubblicamente la mia solidarietà, amicizia e profonda stima professionale, in un tempo nel quale troppi vorrebbero riscrivere la storia delle stragi cancellando quanto faticosamente emerso in lunghi anni di indagini. Il tuo coraggio e la tua perseveranza rappresentano un importante punto di riferimento per tutti quelli che pretendono verità e giustizia. Un abbraccio forte”.


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Parole a cui si sono aggiunte anche quelle dell'ex procuratore generale di Palermo e oggi senatore Roberto Scarpinato: "Esprimo la più totale solidarietà, anche a nome di tutto il M5s, al procuratore capo di Prato Luca Tescaroli, magistrato da sempre in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata, titolare di inchieste delicatissime sulle stragi di mafia e su alcune delle pagine più ambigue della storia della Repubblica. Le intimidazioni e le minacce ricevute da Tescaroli non solo non lo faranno arretrare di un millimetro, ma sono la prova dell'importanza e dell'efficacia del suo lavoro nel restituire le verità che si annidano dietro tante ferite del Paese".


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Tescaroli: dichiarazioni dei collaboratori è un elemento imprescindibile

Il procuratore capo di Prato nel suo intervento ha affrontato la questione dei collaboratori di giustizia prestando particolare attenzione all'origine dell'istituto e al suo sviluppo nel corso degli anni.
Il magistrato si concentrato sull'importanza delle dichiarazioni dei collaboratori definendole "un elemento imprescindibile per contrastare efficacemente l'operare di associazioni segrete che basano la loro forza sull'omertà. Il collaboratore di giustizia - ha continuato - provenendo dall'interno dell'organizzazione, offre una voce indispensabile per conoscere le strategie, identificare i colpevoli e comprendere i motivi dei crimini. Ecco perché sono così importanti e così temuti, al punto che Salvatore Riina era disposto a sacrificare anche la propria salute".


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"La legislazione - ha argomentato – si è articolata nel corso del tempo, ci sono state modifiche fino al 2018, ma è un dato di fatto che dopo il 2008, per quanto riguarda Cosa Nostra ma sostanzialmente anche per altre organizzazioni criminali tradizionali, c'è stata una rarefazione delle collaborazioni. Allora bisogna interrogarsi sul perché tutto ciò è accaduto. Ed è anche una delle ragioni per cui ho ritenuto di portare all'attenzione collettiva il tema dei collaboratori di giustizia. Ora, la collaborazione si regge su due fattori fondamentali: uno è l'incentivazione, quindi in termini di accesso ai benefici e di protezione del collaboratore; l'altro è l'efficienza del sistema di protezione, in modo da tutelare il collaboratore, consentendogli di inserirsi in un nuovo contesto, in una nuova realtà, e di reinserirsi nella società iniziando a svolgere un'attività lavorativa".


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Tuttavia anziché incentivare le politiche recenti e passate hanno invece provocato l'effetto opposto: "A seguito delle pronunce della Corte Europea, seguite poi dalla Corte Costituzionale, e con l'emanazione di una normativa, il gap differenziale tra la normativa prevista per chi collabora con la giustizia e gli irriducibili (cioè coloro che mantengono ferma la loro posizione di aderenti all'organizzazione nonostante la detenzione) si è ridotto. È stato consentito anche agli irriducibili, nei confronti dei quali non è applicato il 41 bis, cioè il regime del carcere duro, di accedere ai benefici, come la liberazione condizionale e i permessi premio. Ecco quindi che diventa meno conveniente collaborare rispetto agli irriducibili, poiché la normativa non è così diversa.


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Se anche da irriducibile si può avere accesso ai benefici, per quale ragione allora uno dovrebbe iniziare a collaborare?”.
Secondo il magistrato bisognerebbe individuare delle soluzioni che “rendano appetibile la collaborazione”, quindi ha fatto alcuni esempi di provvedimenti che potrebbero essere utili allo scopo. Attualmente è previsto che “prima di ottenere la libertà che il collaboratore rimanga in carcere per un decennio. Questo decennio può essere ridotto a seguito dell'applicazione della liberazione anticipata di due anni e mezzo. Ora, se si incidesse su questo tetto di necessaria permanenza in carcere, si renderebbe certamente più appetibile la scelta collaborativa, che è quasi sempre basata su scelte di convenienza.


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Ma lo Stato ha bisogno di questi collaboratori, non può rinunciare a loro, e quindi bisogna accettare anche di dare benefici a chi ha commesso delitti gravi se si vuole raggiungere un risultato importante nel contrasto al crimine mafioso. Ancora, si potrebbe pensare a un trattamento economico differenziato rispetto a quello che oggi esiste. Si potrebbe anche pensare a rendere più efficiente il sistema di protezione. È importante migliorare le condizioni di vita quotidiana, ottimizzare le forme di assistenza e garantire un accesso agevole ai servizi sanitari. Inoltre, è fondamentale assicurarsi che i figli dei collaboratori possano frequentare la scuola in condizioni di sicurezza, verificando se all'interno degli istituti scolastici vi siano anche figli di appartenenti alla stessa organizzazione criminale”.


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Tutte proposte che dovrebbero essere accolte dal legislatore se si vuole veramente rinforzare l’istituto dei collaboratori di giustizia.
Un aspetto, quest’ultimo, rimarcato con forza dal direttore di ANTIMAFIADuemila Giorgio Bongiovanni: “Il dottor Luca Tescaroli ha svolto un ruolo fondamentale nel rafforzare l'istituto della collaborazione con la giustizia. Ho notato l'insistenza benevola del procuratore nel chiedere al legislatore di intervenire affinché questo istituto venga reso veramente efficiente, come desiderato da Falcone e Borsellino, e pagato con il sangue della loro morte. È assurdo che un collaboratore di giustizia, ex mafioso ed ex assassino, possa essere scoperto dalla sua nuova compagna e dal figlio, rivelando la sua vera identità. Questo non può essere accettato in uno stato civile.


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Sono convinto che i governi, indipendentemente dalla loro ideologia non abbiano affrontato adeguatamente le richieste dei magistrati, come quelle del dottor Tescaroli, per rendere il sistema di protezione più forte ed efficiente. Se il legislatore è sordo, i cittadini devono intervenire. Vi invito a seguire i programmi di governo per evitare di diventare complici della situazione attuale”
.


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Giorgio Bongiovanni: il collaboratore di giustizia è l'arma definitiva contro la mafia

"Il collaboratore della giustizia è l'arma risolutiva nella lotta contro la mafia" ha detto Giorgio Bongiovanni durante il suo intervento sottolineando che "il pentito, il collaboratore della giustizia, è la chiave per entrare nel cuore di Cosa Nostra, conoscere i suoi segreti e smantellare l'organizzazione".
Anche l'allora capo di Cosa nostra Salvatore Riina aveva compreso "che i magistrati avevano trovato un'arma risolutiva"; per questo inserì all'interno del famoso 'papello' l'abolizione della legislazione sui collaboratori mentre stava ricattando lo Stato a suon di bombe.


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Con questo libro Tescaroli -
ha ricordato Bongiovanni - vuole far comprendere ai cittadini l'importanza di questo strumento. Questo è essenziale, soprattutto ora che si cerca di smantellare la legge sui collaboratori della giustizia, di svuotarla, di modificarla, in modo che nessuno più si penta". "I cittadini - ha continuato - devono essere consapevoli, quando vanno a votare, se nel programma politico di un governo c'è la lotta contro la mafia e il rafforzamento della legislazione a favore dei collaboratori della giustizia".


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Tornando a parlare delle minacce rivolte a Tescaroli, dopo aver ricordato l’attentato subito dal magistrato nel 1997, ha aggiunto: “Tescaroli ha sempre ricevuto minacce, e recentemente è stata diffusa una notizia riguardante una lettera minatoria con minacce di esplosivi. Queste minacce non provengono da delinquenti comuni, ma da sistemi di potere criminale, anche mafiosi, che cercano di ostacolare il lavoro del dottor Tescaroli. È stato minacciato per il suo lavoro a Firenze, dove ha indagato su personaggi potenti della politica, dello Stato e della mafia”.


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Luana De Francisco: Mafia in Friuli è silente e cerca alleanze

La giornalista del 'Messaggero Veneto' ha ricostruito la situazione delle mafie in Friuli Venezia Giulia dicendo che la mafia presente sul territorio ha cercato "alleanze e convergenze di interessi con il mondo imprenditoriale e gli operatori economici". "Questi sono territori originariamente 'vergini' - ha detto - che sono stati lentamente e progressivamente colonizzati. Non si tratta più soltanto di infiltrazioni, ma talvolta di veri e propri insediamenti".


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Questo quadro lo aveva già ricostruito l'allora "Procuratore Distrettuale a Trieste, Nicola Maria Pace. Quando gli fu chiesto quale fosse la situazione in Friuli Venezia Giulia, Pace rispose che per fare il procuratore lì ci voleva coraggio. Ma precisò che è un coraggio diverso: quello di andare oltre le apparenze e cercare le trame nascoste". Le mafie in questo territorio sono "invisibili, volutamente invisibili. Non si presentano con nome e cognome come al Sud, dove sono ben conosciute e quindi costrette a cercare nuove terre dove investire e riciclare i propri denari".


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La giornalista ha poi ricordato diversi casi in cui "i collaboratori di giustizia ci hanno fornito molte informazioni utili". "Nel momento in cui Vito Galatolo, figlio di Vincenzo, condannato all'ergastolo per l'omicidio del generale Dalla Chiesa, venne arrestato definitivamente per associazione mafiosa, si decise a sua volta a collaborare. Lo aveva già fatto la sorella, testimone delle attività criminali della famiglia e costretta da giovane a pulire i panni sporchi di sangue. Galatolo parla e così confessa di avere continuato a governare la famiglia a Palermo da Mestre, dov'era stato allontanato per ordine della magistratura appena uscito da uno dei tanti periodi già trascorsi in carcere. E racconta anche di avere ricevuto denaro da uomini d'onore, compreso Vincenzo Graziano, suo socio in quel di Udine".


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Foto © Francesco Ciotti

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