Al festival “Trame” il magistrato racconta la mafia calabrese oggi e sottolinea l’importanza dei rampolli dei boss in fuga dalla ‘Ndrangheta
‘Ndrangheta, Cosa nostra, camorra e Sacra Corona Unita sono “una cosa unica”. A sostenerlo è il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo. Il magistrato, intervistato dalla giornalista Paola Militano alla rassegna Trame di Lamezia Terme, ha ricordato quanto l’ex boss di Cosa nostra Leonardo Messina detto “Narduzzo”, la cui collaborazione fu gestita da Paolo Borsellino, ebbe a raccontare nel dicembre del 1992 (quindi dopo la strage di via d’Amelio) alla Commissione Parlamentare Antimafia rispetto all’unitarietà delle organizzazioni storiche mafiose italiane. Il pentito, ricorda Lombardo, parlò addirittura di una commissione Nazionale e Mondiale di Cosa nostra. Una dimensione globale della mafia che oggi, probabilmente, si è addirittura ampliata ulteriormente. “Abbiamo le tracce della loro operatività transnazionale, abbiamo tracce della loro dimensione internazionale, che è molto oltre la dimensione interna”, ha affermato Lombardo. Sul tema, secondo il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, il fatto che la ‘Ndrangheta e le altre mafie sparino meno rispetto alla seconda metà del secolo scorso, non vuol dire che sono indebolite. Anzi. “Vuol dire che le grandi organizzazioni criminali hanno raggiunto un assetto definitivo che non le costringe a palesare la loro riserva di violenza”. Ed è quello, a detta del magistrato, “il momento in cui bisogna preoccuparsi”.
Della ‘Ndrangheta che ci è stata raccontata finora “è rimasto ben poco”, ha aggiunto Lombardo.
“Per comprendere oggi la ‘Ndrangheta non bisogna più osservarla dalla Calabria perché la ‘Ndrangheta è diventata molto altro, perché ho avuto modo di verificare negli ultimi anni che sono molto più capaci di parlare di ‘Ndrangheta soggetti non calabresi rispetto a coloro i quali invece la ‘Ndrangheta l’hanno vissuta dal di dentro per molti anni”, ha affermato sul punto Lombardo.
“Oggi parliamo di una struttura criminale enorme che opera soprattutto allo scopo di movimentare capitali ingentissimi. E’ diventata un sistema che non è più legato a logiche predatorie di un tempo, con piccole o grandi azioni di violenza”, ma un sistema “che è perfettamente consapevole della sua forza nel momento in cui anche sulle nostre vite sgancia continuamente bombe finanziarie”, ha sottolineato il procuratore. Giuseppe Lombardo ha pertanto lanciato l’allarme: “Anche se si ha la sensazione che sia diventato, il suo, un modo di delinquere silenzioso e quindi non troppo preoccupante, è esattamente il contrario. L’evoluzione che la ‘Ndrangheta ha avuto negli ultimi anni la rende ancora più temibile e pericolosa”. Dialogando con la giornalista, il magistrato della Dda di Reggio Calabria ha sottolineato un altro aspetto da non sottovalutare, quello di sottovalutare la dimensione arcaica dei riti e dei simboli della ‘Ndrangheta e delle altre organizzazioni mafiose. Il livello arcaico di affiliazione “è il livello di base imprescindibile perché tutto il resto funzioni”. “L’errore più grande che possiamo commettere oggi - ha puntualizzato sul punto - è pensare che la ‘Ndrangheta, Cosa nostra, la camorra o la Sacra Corona unita si fermino a quel livello lì”.
Paola Militano
Figli che rompono il patto di sangue
A discutere di ‘Ndrangheta insieme a Lombardo era presente anche Arcangelo Badolati, che ha presentato il suo libro “Figli traditori. I rampolli dei boss in fuga dalla ‘Ndrangheta” (Luigi Pellegrini Editore) sui figli di boss di ‘Ndrangheta, chiamati anche “delfini”, che decidono di rompere il loro patto di sangue con i propri padri, da qui il titolo del libro, collaborando con la giustizia. “Mai più padrini”, è il nome del panel. Si tratta di un fenomeno pressoché recente che sta mettendo in seria difficoltà le cosche in quanto le confessioni dei ragazzi stanno facendo luce su efferati delitti e descrivono gli interessi e gli affari della ’Ndrangheta presente in tutto il mondo. “La ‘Ndrangheta è una mafia basata su un vincolo familistico, il patto di sangue. Quindi quando il figlio designato da un boss - ha spiegato l’autore - decide di collaborare con la giustizia crolla questo nucleo fondante della organizzazione criminale che, rispetto alle altre, si muoveva tatticamente e silenziosamente per raccordarsi con il potere a tutti i livelli”. Quindi Arcangelo Badolati ha ricordato alcuni esempi eclatanti di figli che hanno deciso di smettere di seguire le orme dei loro padri, come Emanuele Mancuso il figlio del potentissimo Pantalone Mancuso “l’ingegnere”, Giuseppe Giampà, figlio di Francesco Giampà detto “il professore”, Francesco Farao, figlio di Giuseppe Farao o il nipote di Domenico Agresta. “Sono tanti i figli dei boss di ‘Ndrangheta che collaborano con la giustizia. Non è più solo un caso isolato”, ha osservato l’autore. “E significa che sta cambiando qualcosa. Quindi significa che non sono disposti ad accettare la carcerazione che un tempo era motivo d’onore”.
Arcangelo Badolati
Donne coraggio in fuga da padri e mariti di ‘Ndrangheta
Sul tema, è intervenuto, rispondendo alle domande di Paola Militano, anche Giuseppe Lombardo.
“Non si può immaginare la ricostruzione della ‘Ndrangheta senza ascoltare la voce di chi ha vissuto certe dinamiche, di chi ha frequentato quel mondo e generato una profonda distorsione rispetto alla vita che si conduce nella realtà difficile della Calabria, dove allo Stato si sostituisce l’anti-Stato”.
Il magistrato ha poi ricordato quanto svolto dalla procura di Reggio Calabria a partire da una quindicina di anni fa. “Ci siamo resi conto, tra fine 2007 e inizi 2008, che qualcosa all’interno delle grandi famiglie di ‘Ndrangheta stava cambiando”. Quello era il periodo in cui la procura infieriva duri colpi alle locali di ‘Ndrangheta con gli arresti degli ultimi grandi boss rimasti in libertà nel distretto di Reggio Calabria. Boss che oggi sono tutti in carcere. “Quando lavoravamo su quel fronte e quindi cercavamo di ricostruire la rete nazionale che proteggeva i latitanti da tanti anni ascoltavamo i discorsi che i familiari facevano”, ha ricordato Lombardo. “E il dato più sconvolgente è stato ascoltare la voce dei figli e delle madri che private della figura genitoriale maschile erano tenute a tenere alto il nome della famiglia educando i ragazzi ad una serie di regole deviate tipiche dell’agire mafioso”. In quell’occasione, nei primi mesi del 2008, su proposta della Dda di Reggio Calabria e della procura dei minorenni di Reggio Calabria arriverà il primo provvedimento di sospensione della podestà genitoriale nei confronti di una mamma che era diventata veicolo di valori tipicamente mafiosi verso i figli minori. Si tratta di uno spartiacque storico che ha fatto incassare alla ‘Ndrangheta un duro colpo.
“Mi ricordo perfettamente le parole del procuratore Salvo Boemi al quale parlammo della nostra idea per tutelare i ragazzi che crescevano nelle famiglie di ‘Ndrangheta”, ha rammentato Lombardo raccontato un aneddoto. “Boemi guardò me e il mio collega che gli parlavamo di questo progetto che per fortuna è stato attuato e ci disse ‘guardate che hanno messo in conto ergastoli e confische, ma non hanno messo in conto di perdere i figli. Questa volta ci ammazzano davvero’”. Parole pesanti, ma tremendamente realistiche. Per un capo bastone, perdere un figlio significa perdere potere. Oggi, infatti, il lavoro del programma di supporto a donne e ragazzi “Liberi di scegliere” rappresenta una grande minaccia per l’organizzazione mafiosa. Un programma che, oltre ai figli, vede coinvolte anche le madri, il cui ruolo di donne sposate con boss mafiosi è centrale, come ha spiegato Badolati. Si tratta “di donne straordinariamente capaci di rompere equilibri familiari”, gli ha fatto eco il magistrato Lombardo. Mogli, madri e figlie quindi capaci, con coraggio, “di dar vita ad effetti demolitori che per la struttura criminale sono devastanti”. Si tratta, anche questo, di un risultato dovuto allo sforzo e alla coerenza della magistratura calabrese. “Tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008 molte donne di ‘Ndrangheta hanno capito che il fronte di contrasto era cambiato e che non si andava soltanto ad eseguire semplicemente la tradizionale operazione di polizia giudiziaria - ha rammentato Lombardo - ma che la magistratura aveva anche cambiato gli occhi che servono per affrontare il fenomeno”. “I figli traditori che descrive Arcangelo nel libro in realtà non sono figli traditori”, ha affermato il procuratore aggiunto. “I traditori sono i padri e le madri che non hanno mai spezzato il loro legame con le logiche mafiose e che purtroppo oggi sono diventati un problema enorme soprattutto per i loro figli”. Quindi la preghiera finale ai giornalisti e al pubblico di Trame: “Raccontate bene questo mondo, trovando le parole giuste, arrivando a chi una sentenza non la leggerà mai perché non è in possesso di competenze specifiche per comprendere l’importanza di un processo. Raccontate indipendentemente dai bavagli”. “Il vostro compito - ha concluso - è più importante di chi fa il mio lavoro, spesso e volentieri, tra mille difficoltà”.
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