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“Commosso dal ricordo di Giovanna Maggiani Chelli e la sua sete di verità e giustizia”

È da poco trascorso l’ennesimo anniversario della strage di Capaci. Ogni volta vivo con maggiore disagio le commemorazioni ufficiali che ogni anno si ripetono sempre più pomposamente a Palermo. Mi riferisco a quelle istituzionali. E le vivo con disagio per un semplice motivo: credo che il sogno e il pensiero di Giovanni Falcone sia stato tradito”.
A parlare è il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo intervenuto durante la conferenza "Memoria e ricerca della verità oltre 'il colpo di spugna'". Nel Salone dei Cinquecento (Palazzo Vecchio), si sono susseguiti gli interventi di Luigi Dainelli (Presidente dell'associazione tra i Familiari vittime dei Georgofili), l'avvocato Danilo AmmannatoSalvatore BorsellinoAngelo Garavaglia Fragetta (coofondatore delle Agende Rosse) e il direttore di ANTIMAFIADuemila Giorgio Bongiovanni. Il tutto moderato da Giuseppe Galasso.





Una sala stracolma di persone attente ad ascoltare i vari interventi. Di Matteo è un fiume in piena. E dopo essersi commosso per il ricordo di Giovanna Maggiani Chelli, Presidente della Associazione Familiari Vittime dei Georgofili, e dopo aver espresso solidarietà al magistrato Luca Tescaroli “per i vergognosi e strumentali attacchi denigratori dei quali è stato oggetto in questi giorni”, Nino Di Matteo ha puntato il dito contro i traditori di Falcone.
Io non dimentico che la storia di Falcone è stata una storia di ripetute sconfitte quando era in magistratura. Una storia di isolamento, delegittimazione e amarezze. Gli dicevano: giudice protagonista, giudice politicizzato, giudice comunista, giudice presenzialista. E non posso accettare che oggi quelle stesse persone e i loro eredi fingano di commemorare Giovanni Falcone contrapponendo la sua figura ai magistrati vivi, dicendo: ‘Falcone non avrebbe mai fatto così’; ‘Falcone non sarebbe mai andato in tv’; ‘Falcone non avrebbe mai parlato di indagini e processi in corso’”.



Oggi il sogno di Giovanni Falcone “è stato tradito” perché “non esiste più la politica in prima linea nella lotta alla mafia. Ora sta indietro. E di fronte a qualsiasi indagine che riguarda rapporti tra suoi esponenti e la mafia risponde sempre con lo stesso cliché: una parte grida al complotto della magistratura; l’altra parte invece – ed è ciò che mi preoccupa di più - non prende posizione perché aspetta la sentenza definitiva della magistratura”. Vanificando, così, la responsabilità politica di certi comportamenti che dovrebbero valere “prima e a prescindere dell’eventuale responsabilità penale di determinati comportamenti”, ha sottolineato Di Matteo.


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L’intuizione di Falcone

Falcone capì per primo che Cosa nostra non era soltanto un’organizzazione criminale che si muoveva autonomamente, “ma da sempre si nutriva della capacità di rapportarsi con il potere politico, economico, imprenditoriale e finanziario - ha aggiunto Di Matteo durante il convegno -. Falcone nel capire questo aveva la piena consapevolezza che la guerra si poteva vincere solo quando la politica avrebbe finalmente dimostrato la volontà di rifiutare e recidere i rapporti con la mafia”. La mafia si nutre di rapporti con il potere, spesso anche attraverso metodi corruttivi. “In un momento in cui le mafie cercano di fare affari ed entrare nell’economia, mafia e corruzione sono due facce della stessa medaglia criminale – ha continuato Di Matteo -. E non si può dire di voler combattere la mafia e allo stesso tempo approvare riforme che indeboliscono gli strumenti in mano ai magistrati per indagare e provare fatti corruttivi. O limitare le intercettazioni o addirittura abolire l’abuso d’ufficio. Così come non si può dire di rispettare l’autonomia della magistratura e allo stesso tempo portare avanti riforme costituzionali come la separazione delle carriere e la modifica del principio di obbligatorietà dell’azione penale. O introdurre i test psicoattitudinali che servirà a introdurre una possibilità che nell’accesso alla magistratura metta il becco qualcuno che valuti cose diverse dalla preparazione del magistrato. E magari attraverso questo meccanismo trovi il modo per escludere un aspirante magistrato per le sue idee”.


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Saverio Lodato nei suoi ‘Cinquant’anni di mafia’ ha ricordato che un minuto dopo alle prime comunicazioni giudiziarie che scaturirono dalle dichiarazioni di Buscetta - ha continuato il magistrato -, Falcone e Borsellino convocarono una conferenza stampa per spiegare quali erano i significati essenziali di quella iniziativa; per spiegare in che modo Tommaso Buscetta aveva illuminato i giudici sulla struttura di Cosa nostra e sui metodi di funzionamento dell’organizzazione mafiosa”.
Credo che anche a fronte di ciò che sta accadendo – ha aggiunto - un magistrato che ha giurato sulla Costituzione, non solo ha il diritto di parlare, ma rispetto ad uno stravolgimento dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura e dei principi fondamentali della Costituzione ha anche il dovere di parlare. Stiamo andando verso un sistema giustizia che si allontana dall’uguaglianza di tutti i cittadini dinnanzi alla legge. Rischiamo di andare verso un sistema giustizia che si caratterizza per un doppio binario: efficiente e veloce nel reprimere i reati tipici della criminalità degli ultimi, e una giustizia con armi spuntate nei confronti dei colletti bianchi”. “Questo dobbiamo evitare se abbiamo a cuore il faro del nostro impegno quotidiano, che è la Costituzione. Spesso quando vado nelle scuole mi trovo a parlare con i ragazzi e cerco di far capire loro il mio sentire senza nessuna pretesa di insegnare loro qualcosa. Il mio sentire è che la Costituzione non va modificata ma applicata. E finora non è stato così”, ha sottolineato il magistrato palermitano.


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L’Italia non vuole proseguire il percorso di verità

Tra i temi affrontati da Nino Di Matteo c’è anche quello relativo al ruolo della memoria. E nel fare memoria il magistrato ha sottolineato l’importanza della “visione unitaria” dei contesti. Dal 1992 al 1994, infatti, in Italia sono state perpetrate sette stragi. “È importante capire e sottolineare la necessità di un’ottica di analisi complessiva che tenga conto di queste stragi e anche del quadro politico nazionale e internazionale di quel periodo”, ha evidenziato Di Matteo, che però denota come in Italia si stia facendo l’esatto opposto. Con la sentenza di Cassazione del processo Trattativa Stato-mafia, infatti, i giudici della Suprema Corte che con un colpo di spugna ha assolto tutti gli imputati istituzionali e ha “salvato” i boss mafiosi per intervenuta prescrizione, “sono stati bacchettati i giudici di Palermo perché a loro dire avrebbero adottato un approccio storiografico, quando invece quello era solo un approccio di sistema in una valutazione congiunta dei fatti e delle situazioni”. Non solo. In Italia la Commissione Parlamentare Antimafia, “invece di occuparsi della lunga catena delle stragi, ha concentrato la sua attenzione solo su alcuni aspetti e alcune piste della strage di via D’Amelio. Trascurando l’analisi dei legami che quella strage ha con quella che l’ha preceduta e quelle successive”.



È evidente che in Italia, nella politica e in generale in chi gestisce il potere, “non c’è la volontà di proseguire il percorso di verità – ha continuato Di Matteo con un senso di profonda amarezza -. Anzi, da parte di molti c’è la volontà dichiarata di archiviare per sempre le pagine di storia. Lasciarsela definitivamente alle spalle questa pagina delle stragi dei primi anni ’90, con una narrazione tutto sommato accettabile e rassicurante per tutti. E cioè che quelle stragi furono soltanto l’epilogo della guerra dei cattivi mafiosi contro lo Stato buono che li combatteva senza condizioni. Ecco perché c’è bisogno di memoria, di riflessione e di chiamare le cose per come si delineano. Ecco il motivo per il quale anche rispetto a questa sentenza della Cassazione ho ritenuto di accettare, ritenendolo quasi doveroso, l’invito di Saverio Lodato ad una riflessione (contenuta nelle pagine de “Il colpo di spugna”)”.


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Cassazione: un verdetto spartiacque

Infine, Di Matteo ha evidenziato il pericolo che si cela dietro il colpo di spugna della Cassazione. “Sono abbastanza preoccupato da questa sentenza perché temo che segni uno spartiacque tra due stagioni - ha spiegato -. Una sorta di segnale per tutti quei giudici o pm che ora e in futuro si dovranno occupare di vicende che non possono essere considerate isolatamente, ma richiedono un inquadramento di contesto e di fatti diversi”. Per il magistrato palermitano, “forse era prevedibile che sarebbe andata a finire così. Noi lo sapevamo fin dall’inizio quanto fosse delicata e rischiosa la materia che trattavamo ma sapevamo che il processo andava fatto come imposto dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Per questo oggi non mi sento affatto sconfitto”. “Con i miei colleghi abbiamo fatto il nostro dovere - ha aggiunto -. Per questo abbiamo messo da parte ogni calcolo opportunistico e ambizione di carriera. Perché per fare questi processi devi farlo. Ma d’altra parte noi siamo dei magistrati e forse dovremmo avere il coraggio di fare ammenda dei nostri errori, di dire anche che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura spesso sono limitate da violenti attacchi che provengono dall’esterno, ma molte volte anche da un eccesso di carrierismo dei magistrati che per poter ambire a incarichi di una certa natura spesso vogliono rappresentarsi come affidabili rispetto al potere”.



Foto © Paolo Bassani/Davide de Bari

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