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L’intervista a Repubblica del giornalista e scrittore

Falcone era convinto che dietro i delitti politici di Palermo - Reina, Mattarella, La Torre - ci fosse proprio Gladio, organizzazione segreta che riportava a una matrice della destra fascista. Ma il procuratore Giammanco gli aveva impedito di indagare”. A dirlo, in un’intervista rilasciata a La Repubblica, è il giornalista e scrittore Saverio Lodato, recentemente uscito in libreria con il longseller “Cinquant’anni di mafia” (Bur Rizzoli, edizione). Dialogando con il collega Salvo Palazzolo, Lodato ha ricordato il suo rapporto con il magistrato assassinato il 23 maggio 1992 (domani cadrà il trentaduesimo anniversario) quando lavorava a L’Unità.
Era una stagione davvero particolare quella. Criticato (Falcone, ndr) dal giornale della città, visto con indifferenza anche dal giornale L’Ora, aveva come punto di riferimento per le sue riflessioni L’Unità e Repubblica. Pure per Paolo Borsellino era così”. Il rapporto di conoscenza e stima reciproca tra il giornalista e il magistrato era tale che quest’ultimo lo cercò dopo il fallito attentato che subì all’Addaura nel giugno 1989. “Quella volta, fu lui a cercarmi, chiamando al centralino del giornale L’Ora”, ha ricordato Saverio Lodato. “Quando lo raggiunsi nella sua villa era in pantaloncini, ci sedemmo nel patio, lo trovai particolarmente preoccupato. Quando parlammo del drammatico tam tam che attraversava Palermo -L’attentato se l’è fatto lui’ - mi parlò delle menti raffinatissime, categoria che oggi spiega cosa accadde nel 1992”. L’espressione usata da Falcone continua ad interrogare magistrati, investigatori, giornalisti e opinione pubblica. Chi erano quelle menti che guidavano la mafia dall’esterno? Una sarebbe Bruno Contrada (ex numero tre del Sisde), come ha testimoniato Lodato stesso in aula al processo per il delitto Agostino-Castelluccio e al compianto collega Andrea Purgatori ricordando le valutazioni di Falcone. Un’altra, probabilmente, era Arnaldo La Barbera.


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Saverio Lodato © Paolo Bassani


Di sicuro, La Barbera non può aver fatto da solo il depistaggio delle indagini sulla strage Borsellino o sul delitto dell’agente Agostino. Chiediamoci: il nostro Paese è in grado di trovare le menti raffinatissime?”. Arnaldo La Barbera è l’ex capo della Squadra Mobile di Palermo (deceduto nel 2002), ed ex agente S (nome in “Rutilius”) ritenuto il regista del depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio e di altri misteri che hanno riguardato la Sicilia degli anni ’80 e ’90. Quando Lodato incontrò La Barbera appena arrivato all’aeroporto di Punta Raisi (oggi dedicato alla memoria di Falcone e Borsellino), chiese al capo della Mobile fresco di nomina “quale fosse il suo programma in terra di Sicilia”. “La Barbera mi disse: ‘Sono venuto per combattere gli intoccabili della mafia, ma anche quelli dell’antimafia’”. In quegli stessi giorni si insediava Domenico Sica, l’alto commissario per la lotta alla mafia. “Chiesi a Giovanni Falcone - ha rammentato Lodato nell’intervista - cosa ne pensasse di quegli arrivi. Mi rispose lapidario: ‘Sono stati mandati qui per fare la guerra a me’”. Il sentimento di ostilità di certe personalità delle istituzioni nei riguardi di Falcone era palese. Il 16 settembre 1990 a Modena si teneva la presentazione del libro “Dieci anni di mafia” di Saverio Lodato, il primo di altri quattro volumi della collana. Tra i relatori c’era anche Giovanni Falcone che apprezzò il lavoro del giornalista e al pubblico in sala confessò quanto segue a proposito del clima di isolamento e ostilità che lo circondava tra i corridoi dei palazzi delle istituzioni a Palermo.


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Si muore quando un dito indice, che proviene dall’interno delle istituzioni, ti offre alla vendetta mafiosa”. Parole profetiche. Falcone, prima di essere assassinato, venne ostacolato, delegittimato e criticato da uno stuolo di potenti e persino da alcuni colleghi magistrati.
Una sera del 1988, dopo l’arresto mio e del collega Attilio Bolzoni, Vittorio Nisticò, fondatore de L’Ora, volle conoscermi e in quell’occasione mi fece quasi un terzo grado sui giudici antimafia”, ha raccontato Saverio Lodato.
Poi mi confidò: ‘Apparteniamo a una generazione che la lotta alla mafia l’ha condotta sin dal Dopoguerra, ma in questi anni ci siamo un po’ seduti”. Da quella confessione amara sono trascorsi trentasei anni. E se al tempo un amareggiato Falcone lamentava che sulla lotta alla mafia, al tempo, ci si era un po’ seduti, oggi sicuramente la situazione è di un Italia non più seduta, ma supina. C’è chi, a 32 anni dalle stragi, finge di non sapere e lavora per chiudere quella pagina tragica di storia con la favola, del tutto fuorviante ed errata, di una mafia sconfitta, di un male superato e di uno Stato non corrotto e non corruttibile. “Continuano a sorprendermi le posizioni di alcuni illustri professori universitari, che parlano di mafia sconfitta”, è il commento di Saverio Lodato. L’autore de “Cinquant’anni di mafia”, ha infine ricordato come in alcuni palazzi, sia tornata la vecchia politica del tempo.

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La rubrica di Saverio Lodato


Foto originale di copertina © Shobha

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