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di Stefano Baudino
Qualche giorno prima della morte di Giovanni Falcone che, come abbiamo detto, aveva assunto l’incarico di direttore generale degli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia, Paolo Borsellino aveva fatto ritorno a Palermo come procuratore aggiunto. Subito prima della strage di Capaci, nel corso dell'XI scrutinio delle elezioni del Presidente della Repubblica Italiana del 1992, l’MSI di Gianfranco Fini votò proprio il nome di Paolo Borsellino, il quale ottenne 47 preferenze. Poi, dopo la tragica scomparsa di Giovanni Falcone, i ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli sponsorizzarono manifestamente Paolo Borsellino per la corsa alla nomina di capo di quella Superprocura (la Direzione Nazionale Antimafia) per la cui creazione aveva tanto lavorato Giovanni Falcone, il quale ambiva proprio a ricoprirne il vertice. Borsellino, uomo molto avveduto, rispedirà al mittente queste proposte. Questo è uno stralcio della lettera che Borsellino inviò al ministro degli interni Scotti il 31 Maggio 1992, otto giorni dopo l’esplosione di Capaci: "Onorevole signor ministro, […] i sentimenti della lunga amicizia che mi hanno legato a Giovanni Falcone mi renderebbero massimamente affittiva l’eventuale assunzione dell’ufficio al quale non avrei potuto aspirare se egli fosse rimasto in vita. La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce, nei fatti, di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento. […] Per quanto a me attiene, le suesposte riflessioni, cui si accompagnano le affettuose insistenze di molti dei componenti del mio ufficio, mi inducono a continuare a Palermo la mia opera appena iniziata, in una procura della repubblica che è sicuramente quella più direttamente e aspramente impegnata nelle indagini sulla criminalità mafiosa".

Tra gli ultimi giorni di Giugno e i primi giorni di Luglio davanti a Paolo Borsellino siederanno due pentiti di mafia le cui dichiarazioni, specie dopo la scomparsa del giudice, costituiranno la base per uno dei processi più importanti che abbia mai avuto luogo in Italia: quello a Giulio Andreotti. Leonardo Messina, nato a San Cataldo, paese della Sicilia centrale, descrisse in particolare a Borsellino il “Sistema Siino”, ovvero quel meccanismo grazie al quale mafia, politica corrotta e imprenditoria collusa si erano letteralmente spolpate la Sicilia grazie al controllo totale di Cosa Nostra sulle gare d’appalto di lavori pubblici. Il pentito Gaspare Mutolo, ex autista di Totò Riina, cominciò invece a rivelare a Paolo Borsellino le collusioni con Cosa Nostra di Bruno Contrada, funzionario dei servizi segreti (numero tre del Sisde), e anche dell’ex pm del Maxiprocesso Domenico Signorino. Insomma, un pezzo dello Stato stava ormai diventando oggetto delle indagini dei giudici che si occupavano di Cosa Nostra: il momento era estremamente delicato, perché i nemici dei magistrati che lottavano con tutte le loro forze per fare luce su quella zona d’ombra tra Palazzi del potere, imprenditoria e universo mafioso descritta dai pentiti non si contavano più e non erano circoscritti soltanto più all’ambiente “militare” di Cosa Nostra.

Le frizioni tra Polo Borsellino e il procuratore capo di Palermo Giammanco furono però numerosissime e, tra le altre cose, riguardarono in particolare la gestione degli interrogatori di Gaspare Mutolo. Il mafioso, alla fine del 1991, aveva espresso il desiderio di farsi interrogare da Giovanni Falcone, il quale, però, stava già ricoprendo l’incarico di dirigente della sezione Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia e dunque non sarebbe stato legittimato a sentirlo. In seguito alla strage di Capaci, Mutolo richiese allora di farsi ascoltare da Paolo Borsellino, l’unico magistrato che, a detta dello stesso Mutolo, godeva della sua fiducia. Essendo Borsellino formalmente preposto alle indagini sulle cosche di Trapani e Agrigento e non avendo la competenza su Palermo, Giammanco decise di tagliarlo fuori ed affidò il fascicolo del pentito in questione al procuratore aggiunto Vittorio Aliquò e ai sostituti procuratori Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli mentre Borsellino si trovava in Germania. Al suo ritorno, adirato per l’accaduto, Borsellino disse al fedele Antonio Ingroia, sostituto procuratore di Palermo che aveva lavorato con lui nella medesima veste anche a Marsala: "Ma come può fare questo? Giammanco sostiene che ho la delega solo su Trapani e Agrigento, che non avendo la competenza su Palermo non posso interrogare Mutolo. E se quello non si pente più? Quando si saprà cos’è successo, sarà una bomba che scoppierà nelle mani di Giammanco". Aliquò, ago della bilancia dello scontro frontale in atto, fece da tramite tra Borsellino e Giammanco, il quale, resosi conto della situazione, consentirà a Borsellino di partecipare agli interrogatori insieme agli altri tre magistrati designati. Ecco come il sostituto procuratore Lo Forte, nel corso di una deposizione al processo per la strage di via D’Amelio davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta, ha ricordato quegli eventi: "Mutolo, nel prospettare la sua intenzione di collaborare con la giustizia, fece sapere di voler parlare con Borsellino, cosa che spinse Giammanco a disporre, nella delega ad Aliquò, una clausola che prevedeva una sorta di coordinamento con Paolo Borsellino". Aggiunse Lo Forte: "Paolo mostrò un certo disappunto per non essere stato investito formalmente delle indagini relative a Mutolo, tanto che con una battuta ci disse che era inutile che lui partecipasse agli interrogatori". Alla fine di Giugno, inoltre, incontrandolo all’aeroporto, il ministro della Difesa Salvo Andò cercò di confrontarsi con Borsellino in merito all’informativa del Ros, inviata alla Procura di Palermo, in cui entrambi venivano considerati facili obiettivi di un attentato della mafia: Borsellino, a cui Giammanco non aveva comunicato alcunché, rimase basito di fronte agli elementi che erano emersi da tale colloquio e andò su tutte le furie. Arrivato a Palermo, si sfogò contro un farfugliante Giammanco, chiedendogli conto di quel suo assurdo silenzio, arrivando addirittura a ferirsi una mano dopo aver battuto con grande impeto il pugno sul tavolo.

Rubrica Mafia in pillole

Foto © Shobha

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