di Stefano Baudino
Sabato 23 Maggio 1992, alle 17.56 e 48 secondi, esplosero 500 chili di tritolo sistemati all’interno di fustini posizionati sotto le carreggiate di quel tratto di autostrada di Capaci su cui Giovanni Falcone stava transitando alla guida di una Fiat Croma bianca blindata, preceduta e seguita dalle due automobili della sua scorta, arrivando dall’aeroporto di Palermo-Punta Raisi. Ad azionare il telecomando era stato Giovanni Brusca, inserito nel mondo della mafia fin da tenera età e iniziato a Cosa Nostra da Totò Riina in persona. Insieme a lui, a Capaci, erano presenti i mafiosi Nino Gioè, il quale in quel frangente era preposto al controllo dell’arrivo delle automobili per mezzo di un cannocchiale, Giovanni Battaglia e Salvatore Biondino. Ad esaminare la velocità a cui le automobili stavano procedendo, al fine di comunicarlo a Giovanni Brusca, che avrebbe dovuto premere il pulsante al momento giusto, era stato invece il mafioso Gioacchino La Barbera. Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo (gli uomini della scorta che si trovavano all’interno del primo abitacolo) morirono sul colpo. Coloro che invece viaggiavano sul veicolo di coda rimasero feriti, ma riuscirono ad uscire dalla macchina, preparati ad affrontare i mafiosi in un conflitto a fuoco che, però, non ebbe luogo. “Non partì nessun colpo - scrive John Follain nell'opera Gli Ultimi Boss - e i tre videro l’auto di Falcone, ormai priva della parte anteriore, in bilico su un cratere di quattordici metri di larghezza e tre metri e mezzo di profondità. […] Corsero verso l’auto distrutta del giudice e videro che i tre passeggeri, Falcone al posto di guida, Francesca seduta accanto e Costanza, l’autista, accomodato dietro, erano gravemente feriti. Falcone muoveva la testa avanti e indietro, con il viso ridotto a una maschera di sangue. Francesca era svenuta, gli occhi rovesciati. L’uomo della scorta si avvicinò al finestrino blindato dalla parte del giudice, che l’esplosione non aveva frantumato, e lo chiamò per nome. Da dietro il vetro Falcone, intrappolato nel rottame, girò la testa. Era ancora cosciente ma, come avrebbe testimoniato la sua guardia del corpo, il suo sguardo era 'vuoto e senza vita'”. Dopo circa un’ora dal momento dell’esplosione, Giovanni Falcone morì in ospedale a causa delle emorragie interne. Da lui era appena arrivato il suo collega e amico Paolo Borsellino. Anche a Francesca Morvillo, la moglie di Falcone, toccò disgraziatamente la medesima sorte. All’indomani della strage, l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli decise di firmare i primi provvedimenti di 41-bis, per mezzo dei quali moltissimi detenuti per mafia furono condotti nelle supercarceri di Pianosa e Asinara in isolamento, dopo l’introduzione del cosiddetto Decreto Antimafia Martelli-Scotti.
In merito alla mole di informazioni costituita dagli appunti e dagli impegni di lavoro di Giovanni Falcone, che era stata da lui annotata nelle sue agende elettroniche (un databank Casio e uno di marca Sharp) e che venne fatta sparire da mani ignote per non essere mai conosciuta, Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, nel loro libro Falcone e Borsellino. Mistero di Stato, affermano che “non si è mai trovato nulla degli appunti di Giovanni Falcone, se non due fogli che il magistrato aveva affidato alla giornalista Liana Milella […] Quel 23 Maggio si mossero dunque con certosina solerzia. Certo, adesso ad agire non erano più i picciotti delle cosche, ma probabilmente insospettabili uomini delle istituzioni, con un tesserino e un distintivo in tasca. Non può che essere così. Anche perché, poche ore dopo la strage, la procura di Caltanissetta aveva già posto i sigilli all’ufficio di Falcone al ministero e dato ordine di cercare ogni elemento utile alle indagini nelle sue abitazioni. Ma accaddero lo stesso cose strane: nella casa di Roma, il Servizio centrale operativo della polizia non trovò mai il databank Casio Sf 9500, non ce n’è traccia nel verbale del primo sopralluogo. Eppure, qualche giorno dopo - eravamo già a fine Giugno - si materializzò proprio tra quelle mura. E i familiari lo consegnarono immediatamente alla magistratura. Il contenuto era stato però interamente cancellato, ed era scomparso un accessorio fondamentale, l’estensione di memoria che conteneva altri dati. Anche nell’abitazione palermitana di Falcone si materializzò un altro computer solo dopo il sopralluogo della polizia, un portatile Toshiba. I dati c’erano tutti, ma erano stati maldestramente letti e in parte modificati”. I due giornalisti, inoltre, ricordano che “nell’ufficio del Ministero di via Arenula, collegato al computer da tavolo, è rimasta un’unità di back-up, ma delle relative cassette magnetiche non si è trovata traccia. Accanto, il giudice teneva un notebook Compaq, protetto da chiave elettronica: anche in questo caso il contenuto del computer portatile venne consultato maldestramente, cancellando le date originali dei documenti. Imperizia degli investigatori o quei file erano stati letti da qualcun altro che aveva poi cercato di depistare, sviando i sospetti? […] C’è grande fibrillazione attorno a quei documenti: lo dicono i computer, che registrano nella propria memoria ogni accesso, ogni lettura. E sono letture eseguite come se alla tastiera si fosse messo un incompetente di informatica, perché ogni volta i documenti vengono salvati nuovamente, e così le date originarie risultano cancellate”. Il vicequestore Gioacchino Genchi, che lavorò alacremente al caso, affermerà che «bisogna bilanciare la malafede, l’incapacità o la volontà di dissimulare simulando, perché a volte ci si può fingere estremamente imbecilli per far sembrare tutto quel che si fa come frutto di un’attività puerile. Ecco, nel bilanciamento di questi tre elementi che possono concorrere nella modifica, nella creazione, nell’aggiornamento dei file - malafede, imperizia o altro - non siamo in grado di stabilire, questo i computer non ce lo dicono, quali dei tre abbia prevalso».
Rubrica Mafia in pillole
Foto © Shobha
La morte di Giovanni Falcone e il grande mistero dei file manomessi
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