di Stefano Baudino
Quali furono gli effetti della seconda guerra di mafia sulla composizione della Commissione di Cosa Nostra? Essenzialmente, la Cupola si trasformò da organismo tendenzialmente democratico ed elettivo a corpo gerarchico e nominale. Totò Riina, il quale lasciò la presidenza della Commissione a Michele Greco (sostituito dallo stesso Riina nel 1986, nel momento in cui venne arrestato), impose il suo potere dispotico su tutta la Cupola, provvedendo in prima persona alla scelta dei nuovi capimandamento sulla base dei loro rapporti con l’universo corleonese. Il rimpasto fu davvero impegnativo, anche e soprattutto per il fatto che molti degli scranni erano vuoti a causa dell’uccisione di chi, fino a poco tempo prima, ne era il detentore. Al termine della seconda guerra di mafia, la fisionomia della Commissione di Cosa Nostra era la seguente:
Giuseppe Greco (capomandamento di Ciaculli)
Raffaele Ganci (capomandamento della Noce)
Giuseppe Calò (capomandamento di Porta Nuova)
Antonino Madonia (capomandamento di Resuttana)
Salvatore Riina (capomandamento di Corleone)
Salvatore Montalto (capomandamento di Villabate)
Giuseppe Giacomo Gambino (capomandamento di San Lorenzo)
Bernardo Brusca (capomandamento di San Giuseppe Jato)
Francesco Intile (capomandamento di Caccamo)
Antonino Geraci (capomandamento di Partinico)
Salvatore Buscemi (capomandamento di Passo di Rigano)
Pietro Lo Iacono e Ignazio Pullarà (reggenti del mandamento di Santa Maria di Gesù)
Matteo Motisi (capomandamento di Pagliarelli)
Gabriele Cammarata (capomandamento di Misilmeri)
Giuseppe Farinella (capomandamento di San Mauro Castelverde)
La vera novità della nuova direzione corleonese di Cosa Nostra fu la rivoluzione nel campo della gestione degli appalti. Riina affidò questo compito al suo uomo di fiducia Angelo Siino (in foto), legato alla massoneria, che fu deputato a monitorare l’aggiudicazione dei vari appalti sui lavori pubblici in terra sicula. Con il sistema inventato da Siino, i clan si procuravano l’elenco delle gare d’appalto e delle aziende in lizza, poi decretavano chi dovesse risultare vincitore e quale fosse l’ammontare della tangente per Cosa Nostra. Un mafioso incaricato di occuparsi dell’affare faceva visita ai singoli partecipanti e comunicava a ciascuno il prezzo con cui prendere parte alla gara, in modo tale da veicolarla verso un determinato risultato. Tutte le parti in gioco potevano godere di importanti vantaggi, poiché il clan della zona incamerava il 3% del valore dell’appalto, i politici se ne accaparravano il 2% e la stessa quota finiva anche nelle tasche del capo dei capi Totò Riina. Al momento della concessione dell’appalto il clan entrava di nuovo in gioco e stabiliva i nomi dei fornitori, delle ditte di subappalto e di quelle che avrebbero fornito il personale responsabile della sicurezza e gli operai del cantiere.
Questo metodo, applicato in maniera continuativa, garantiva la rotazione delle aziende vincitrici delle gare d'appalto e, contemporaneamente, la serenità degli imprenditori che si adattavano al suo meccanismo, i quali non dovevano temere intimidazioni o danni materiali alle loro aziende.
Nel frattempo, dalla sua base a Bagheria, il latitante Bernardo Provenzano provvedeva a numerosi investimenti in società immobiliari e al riciclaggio di massicce quantità di denaro sporco, servendosi di una enorme schiera di prestanome, nonché alla divisione dei proventi tra le varie cosche mafiose: fu proprio in questo periodo che assunse il soprannome di “Raggiunieri” (“ragioniere”).
Dal deposito, i corleonesi controllavano anche il business del traffico di droga: una volta vinta la seconda guerra di mafia, infatti, il clan di Riina e Provenzano era subentrato ai palermitani in questa attività nodale ed estremamente remunerativa.
Rubrica Mafia in pillole