di Stefano Baudino
Dopo la prima guerra di mafia e l’uccisione di Michele Cavataio, in occasione della quale, come abbiamo visto, i corleonesi giocarono un ruolo assai importante e delicato, i rapporti interni a Cosa Nostra mutarono considerevolmente. All’improvviso, il ponte che collegava Corleone a Palermo divenne estremamente più solido e alcuni tra i più influenti boss palermitani reduci dal sanguinoso conflitto interno, primo tra tutti Gaetano Badalamenti, decisero di allearsi con gli “emergenti” di Corleone. In particolare, Riina e Provenzano si occuparono di uccidere tutti i principali nemici di Badalamenti a Cinisi, della cui cosca don Tano era capo, anche durante il periodo in cui questi si trovava in galera. Perfino Stefano Bontate, pezzo da novanta della mafia di Palermo che veniva chiamato con il soprannome di Principe di Villagrazia nonostante non avesse alcun titolo nobiliare, si servì dei corleonesi per i suoi affari.
I mafiosi, la cui urgenza era quella di ricostruire la Commissione ma, allo stesso tempo, di fare in modo che la salute della stessa potesse sopravvivere alla prova del tempo e degli inevitabili contrasti che si sarebbero venuti a creare tra i suoi componenti, si incontrarono a più riprese in varie città, tra cui Zurigo, Milano e Catania, per condividere idee al fine di attuare la strategia più conveniente per i loro interessi. Nel 1970 venne così creato il cosiddetto “Triumvirato”, composto proprio dai boss palermitani più inclini a relazionarsi in maniera costante e programmatica con le forze corleonesi, ovvero Gaetano Badalamenti e Stefano Bontate, e dall’astro nascente di Corleone Luciano Liggio, che si era spianato la strada dopo l’uccisione di Michele Navarra grazie all’implementarsi dei suoi profitti in terra palermitana ma che, a causa della sua difficile latitanza, scelse di farsi rappresentare da Totò Riina. Si fidava infatti più di lui che di Bernardo Provenzano, che considerava meno raziocinante. La funzione di quest’organo ristretto sarebbe dovuta essere quella di dirimere con più efficacia le controversie tra le varie cosche ma, come vedremo, questa operazione non diede i frutti sperati.
Cosa distingueva infatti lo schieramento dei corleonesi dalla fazione circoscrivibile alla mafia palermitana? Il fatto che quest’ultima, e solo quest’ultima, incamerasse ingenti guadagni dal traffico di droga, importato a Palermo proprio da Stefano Bontate. L’oppio proveniva dal cosiddetto “Triangolo d’oro” composto dalla Thailandia, dalla Birmania e dal Laos, per poi essere lavorato all’interno delle numerosissime raffinerie dell’eroina presenti a Palermo e direttamente collegate ai giri d’affari della famiglia Gambino a Brooklyn. Il braccio destro del “Principe” Stefano Bontate era il mafioso Salvatore Inzerillo, il quale approvvigionava con lui la morfina per poi spedirla in territorio statunitense dopo la raffinazione. I palermitani si rifiutarono di spartire l’enorme bottino proveniente dal traffico della droga con i corleonesi, i quali, senza esitare, decisero immediatamente di non piegarsi a questa logica di subordinazione e di rispondere per le rime.
In foto da sinistra: Luciano Liggio, Salvatore Riina, Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti
Rubrica Mafia in pillole
La rinascita di Cosa Nostra: il ''Triumvirato'' e il business della droga
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