di Stefano Baudino
Negli anni '50 Corleone era stabilmente controllata da Michele Navarra, direttore dell'ospedale e padrino del paese, il quale era felicemente riuscito a sbaragliare la tenace opposizione del suo grande nemico Placido Rizzotto, sindacalista a capo del movimento contadino che aveva strenuamente lottato contro il potere dei latifondisti legati a doppio filo con il potere mafioso, grazie all'energica opera omicida del suo fidato luogotenente Luciano Liggio (in foto). Quest'ultimo, però, si rese protagonista di un copione che, ciclicamente, avrebbe contrassegnato la storia di Cosa Nostra anche nei decenni successivi: quello del semplice scagnozzo che si fa criminale, del mafioso disinvolto e indomito che prende consapevolezza delle risorse che ha a disposizione, funzionali all'ampliamento dei suoi orizzonti, che raccoglie attorno a sé un'accolita di collaboratori fidati e spietati, che si rende conto che la luce dell'ambizione è molto più intrigante rispetto alla prospettiva di una vita passata all'ombra del potere di un vecchio boss tradizionalista che non ha ragioni e stimoli per guardare oltre i confini del suo piccolo “regno”. Lucianeddu cominciò dunque a ritagliarsi la sua autonomia, concentrandosi sul furto e sulla successiva macellazione clandestina del bestiame ed aprendo anche un’impresa di autotrasporti per trarre ancora più guadagni da questa attività.
La grande contesa tra Luciano Liggio e il boss Navarra ebbe origine nel momento in cui si discusse dell'eventuale realizzazione di una diga, che avrebbe irrigato oltre centomila ettari di terra, sul fiume di Corleone. Su di essa Liggio mirava a lucrare, proprio in virtù del fatto che la sua azienda avrebbe potuto giocare un ruolo importante nel trasporto dei materiali necessari per la sua costruzione. Navarra, però, si oppose fermamente all'opera: la diga avrebbe portato l'acqua oltre i monti e ciò avrebbe comportato la perdita del controllo dei pozzi da parte del capomafia di Corleone.
Il giovane Liggio non fu pavido e, in risposta al diniego a suo parere ingiustificato del boss, mise a segno una serie di furti e atti di vandalismo all’interno della proprietà di Angelo Vintaloro, sodale di Navarra e anch’egli fortemente contrario alla costruzione della diga. Navarra reagì con fermezza e il 24 Giugno del 1958 inviò alcuni picciotti armati contro Liggio, il quale venne ferito ma riuscì a salvarsi.
L'omicidio di Michele Navarra
Il dado era ormai tratto, lo scontro irrimediabilmente aperto: il 2 Agosto, poco più di un mese dopo il fallito attentato ai danni di Liggio, la macchina di Michele Navarra, il quale stava facendo ritorno a Corleone dal paese di Lercara Friddi assieme ad un giovane medico completamente estraneo a qualsiasi vicenda criminale, fu crivellata da 124 proiettili sparati dalla banda dei sodali di Lucianeddu. Da quel giorno il volto di Corleone, che aveva perso la sua figura di riferimento, cambiò per sempre.
Navarra era, sì, morto, ma il paesino pullulava ancora dei suoi fedeli accoliti. Nel settembre 1958 ebbe luogo l’ennesima carneficina: la “Trinità” di Corleone, composta da Liggio e dai suoi seguaci Totò Riina e Bernardo Provenzano, massacrò infatti i compagni del vecchio boss dopo averli attirati con l’inganno ad un incontro di pacificazione dopo l’omicidio di inizio Agosto. Fino al 1961 le strade di Corleone continuarono a contare decine di morti ammazzati per mano della nuova generazione mafiosa corleonese. Da quella stagione in avanti, come nel caso del mafioso più vicino a Navarra Francesco Paolo Streva, si ricorse sempre più spesso alla strategia omicida chiamata lupara bianca, caratterizzata dal fatto che i cadaveri venivano fatti sparire dalla circolazione nei modi più diversi: bruciati, murati nel cemento o addirittura gettati nelle fosse e corrosi dal fertilizzante agricolo da cui venivano ricoperti.
Gli spostamenti di Liggio per affari a Palermo, intanto, si facevano sempre più numerosi e proficui. Il suo business non era solo più relegato alla macellazione clandestina della carne, in vista della quale aveva preso possesso, nel capoluogo siciliano, di un’officina e di un garage; il boss si diede infatti anche alle estorsioni in ambienti legati al gioco d’azzardo e si concentrò inoltre sul mercato dei cereali, potendo contare su profitti pari a circa un milione di euro l’anno.
Corleone, da quel piccolo paesino rurale che era durante gli anni del dominio di Michele Navarra, grazie alla nuova, giovane e dinamica “gestione” di Luciano Liggio, si stava avvicinando a grandi passi all'ambiente palermitano, intravedendo la possibilità di insinuarsi nei suoi ritmi, nei suoi affari e, soprattutto, nelle sue strutture.
Rubrica Mafia in pillole
Corleone annega nel sangue: ora comanda Liggio
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