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In ricordo di don tonino bello - Le sue battaglie anti-basi militari, l’accusa di essere “pacifista” e “rosso”. In realtà chiamava solo le cose con il loro nome. A 30 anni dalla sua morte, la guerra era e resta una follia

Don Tonino Bello è stato per me uno straordinario compagno di viaggio e di impegno contro le armi e la guerra.

Quando fui espulso dal Sudan nel 1975, il mio istituto, i missionari comboniani, mi chiesero di operare a Lecce come animatore dei giovani del Salento. Don Tonino, giovane sacerdote, era allora rettore del Seminario di Ugento. Andavo spesso nel suo seminario per degli incontri con i giovani. Quando divenni poi direttore di Nigrizia, ricevetti per posta un bigliettino: “Caro padre Alex, sono stato nominato vescovo di Molfetta. Forse tu ti sarai dimenticato di me. Ma io non mi sono dimenticato di te. Tu eri quello che con i tuoi giovani venivi a rubare i ‘miei’ mandarini in Seminario”.

Fu così che riannodai subito il legame con don Tonino e gli chiesi di scrivere delle riflessioni per Nigrizia. Da qui nacque la straordinaria rubrica “Caro Marocchino”. Quando poi insieme ai “Beati i Costruttori di pace” denunciammo i pesanti investimenti in armi da parte del governo italiano ci fu lo scontro forte con i politici di allora. Fu in quel momento che don Tonino fu eletto presidente nazionale di Pax Christi e assunse in pieno le istanze di Nigrizia e di “Beati i costruttori di pace”. Sono stati anni difficili e pesanti per me, ma ho sempre avuto la vicinanza di don Tonino, soprattutto quando scelsi di vivere nella baraccopoli di Korogocho (Kenya).

Don Tonino era un profeta, un “profeta scomodo, anche dentro la Chiesa”, come ha affermato di recente il numero due del Vaticano, il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità papa Francesco. È stato proprio il pontefice venuto dall’America latina, che nei primi giorni di pontificato aveva dichiarato di “sognare una Chiesa povera e per i poveri”, ad ammettere quella possibilità che, per quanti gli sono stati vicini, era una verità palese, mentre per tanti – che lo bollavano come “vescovo rosso” – era solo fumo negli occhi. La possibilità, cioè, che don Tonino Bello venga riconosciuto come modello autentico di cristiano. In poche parole, un santo. Visitando nel 2018 Molfetta, dove è stato vescovo per 11 anni (1982-1993), e Alessano, dove è sepolto, papa Francesco ha reso giustizia a un uomo che è stato, parole sue, “sorgente di pace”. Un prete e un vescovo che ha dovuto sopportare con sofferenza e pazienza per tanti anni (anche all’interno della Chiesa) l’accusa di essere “pacifista”, come se cercare la pace e lottare contro le guerre fosse un insulto di cui chiedere scusa.

Oggi, a 30 anni della prematura morte di don Tonino, è l’occasione buona per fare piazza pulita di tante storture e falsità sul conto del “vescovo con il grembiule”. Perché la sua radicalità evangelica è stata cristallina, assoluta e ferma. La lotta per la pace e la promozione della nonviolenza rappresentavano per lui un’esigenza intrinseca nella sequela di quel Cristo cui aveva deciso di dedicare la vita come prete. Tante volte noi cristiani parliamo del Vangelo con belle parole, ma poi lo lasciamo ammuffire sugli altari delle chiese. Siamo colpevoli di quella separazione che già Paolo VI segnalava come il grande dramma della Chiesa moderna: la separazione tra Vangelo e vita, tra scelte religiose e scelte personali. E invece il cristiano sa, per citare Karl Barth, che si deve vivere con la Bibbia in una mano e il giornale (oggi diremmo Internet) nell’altra, perché la nostra esistenza di discepoli di Gesù non può scorrere lontana dai fatti della storia. Anzi.

Don Tonino era questo: un cristiano completamente immerso nella propria storia con la luce del Vangelo. Uno che prendeva sul serio l’invito di Gesù, che a Pietro disse: “Rimetti la spada nel fodero!”. Perché la nonviolenza non è una possibilità come le altre, per un cristiano, ma opzione vera e autentica, necessaria e impegnativa. E dunque don Tonino non poteva, per esempio, assistere impassibile al fatto che proprio nel suo amato Meridione d’Italia si intensificasse, in quegli anni, il potenziamento militare di Crotone, di Gioia del Colle o dell’Alta Murgia, dove era stato pensato il più grande campo di esercitazioni militari d’Italia.

Non poteva rimanere ammutolito davanti alla guerra del Golfo, quel conflitto scatenato dalle potenze occidentali semplicemente per motivi economici, che avevano un nome e un cognome: il petrolio iracheno. Don Tonino entrava con la prospettiva del Vangelo nei problemi e nei fatti della cronaca: e giudicava con la sapienza del Vangelo la storia degli uomini, nuovo Isaia (profeta da lui molto amato, come era amato da altri testimoni di pace, Giorgio La Pira e Giovanni XXIII) che sognava il giorno in cui l’uomo avesse messo fine alla follia dell’armarsi e dato spazio alla “convivialità delle differenze”.

Tonino Bello ha avuto un altro grande merito: dare un nome alle cose. La dottrina sociale della Chiesa ha più volte parlato di “strutture di peccato” che generano le ingiustizie sociali cui assistiamo, per cui se da un lato oggi sul pianeta contiamo 800 milioni di persone sotto nutrite, esistono 1,6 miliardi di esseri umani che consumano troppo cibo. Ebbene, per don Tonino quelle strutture di peccato non erano entità astratte ma derivavano da scelte precise: una su tutte, il mercato degli armamenti, contro il quale ha condotto battaglie memorabili come presidente di Pax Christi in Italia. Armi e armi che vengono prodotte e vendute, armi che anche la nostra Italia fabbrica e vende in abbondanza, come da tempo rileva l’Osservatorio sulla produzione delle armi leggere di Brescia. Armi che quest’anno, ci dice il Sipri di Stoccolma, hanno raggiunto a livello globale, complice ovviamente il conflitto in Ucraina, un nuovo, terrificante record di produzione: 2240 miliardi di dollari, con un aumento del 3,7% rispetto all’anno precedente. Una follia assoluta, un’ingiustificata e ingiustificabile corsa a strumenti di morte. Sui quali negli anni si è levata la voce appassionata e cristiana di don Tonino. Il quale anche oggi avrebbe chiesto con forza a una politica imbelle la ricerca di “schemi di pace”, come papa Francesco più volte ha invocato alla comunità internazionale, sulla guerra in Ucraina, invece di insistere in maniera cieca e indifferente in “schemi di guerra”.

La pace non può aspettare. Perché i deboli, le prime vittime della guerra, non possono aspettare che i potenti scherzino con il fuoco sulla pelle degli innocenti che pagano con la propria vita scelte scellerate e strategie neocolonialiste. Don Tonino Bello oggi leverebbe di nuovo la sua voce per dire che guerra e armi sono follia, e chi le propugna come risoluzione dei conflitti è, cristianamente e laicamente, “alieno a ragione”, come recita Pacem in terris di Giovanni XXIII. In una parola, pazzo. Nuove armi significano pazzia. Le spade non vanno brandite, ma rimesse nel fodero. Soprattutto in questo tempo di armamenti nucleari. I nostri figli ce lo chiedono. La Terra ce lo domanda. La coscienza ce lo impone.

Tratto da: ilfattoquotidiano.it

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