Il 15 gennaio 1993 i carabinieri del Ros hanno arrestato a Palermo il capo dei capi di Cosa nostra. Era latitante da luglio 1969. Spacciata come “la più clamorosa operazione antimafia”, in realtà ancora oggi presenta lati oscuri che le inchieste non hanno mai chiarito. A partire dal covo del boss, che inspiegabilmente non venne sorvegliato mentre la magia lo ripuliva
Su quello che è accaduto a Palermo il 15 gennaio del 1993 sappiamo ancora molto poco. Erano le 8.55 del mattino, qualcuno in un atto ufficiale riporterà che erano però le 9.01. Sei minuti in più o sei minuti in meno, dettaglio decisamente irrilevante dal momento che trent’anni dopo siamo sempre qui a chiederci come lo hanno preso. Spacciata come “la più clamorosa operazione antimafia del secolo”, compimento di una sofisticatissima indagine di polizia giudiziaria, la notizia ha fatto il giro del mondo ed è volata anche sulla prima pagina di un quotidiano di Pechino. C’era la foto di un uomo basso e tarchiato, con addosso una giacca troppo lunga e troppo larga. La faccia gonfia, lo sguardo spento. Sembrava un vecchietto qualunque, un innocuo pensionato, il nonno della porta accanto. E invece era il più sanguinario e “irregolare” capo della storia della mafia siciliana, Salvatore Totò Riina, nato sotto il segno dello Scorpione a Corleone il 16 novembre 1930.
Era l’uomo che con una parola poteva decidere della vita o della morte di ogni siciliano, che aveva terrorizzato l’Italia, che aveva ordinato di far saltare in aria i giudici Falcone e Borsellino. Era anche il mafioso che aveva preso per mano Cosa Nostra trascinandola in un vicolo cieco. Bombe, bombe e solo bombe.
Figli cresciuti in clandestinità
Poco prima o poco dopo le nove di quel 15 gennaio l’avevano trasportato come un sacco nella piazza dove s’incrociano i santuari del potere di Palermo, dentro una caserma incastrata fra la curia arcivescovile e palazzo dei Normanni, il parlamento siciliano. L’hanno appoggiato su una sedia, le manette ai polsi, lui sotto un ritratto del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. L’immagine dello stato che vince sulla mafia, il segno della vittoria. Ma nessuno aveva capito come era finito lì dopo quasi un quarto di secolo. Era latitante dal 21 luglio 1969. Sempre in compagnia della moglie Ninetta Bagarella, quattro figli cresciuti in clandestinità ma fatti nascere dalla stessa ostetrica in una clinica a due passi dal teatro Politeama, vaccinati dallo stesso medico, fuggiaschi e liberi. “A me non mi ha mai detto niente nessuno, a me non mi ha mai cercato nessuno”, ha sibilato lui la prima volta che si è ritrovato nell’aula bunker dell’Ucciardone.
Una messinscena
In questi trent’anni, e proprio per gli effetti di quella miracolosa cattura, ho imparato che per decifrare cosa succede nelle mafie non basta conoscere le mafie ma capire a fondo anche le manovre e gli obiettivi degli apparati che le combattono. C’è uno specchio che riflette le due realtà, una apparentemente di fronte all’altra e una che, di frequente, si può confondere con l’altra. L’arresto di Totò Riina, fin dal primo giorno mi ha fatto venire in mente, nella sua più moderna e meno cruenta interpretazione, l’uccisione del bandito Salvatore Giuliano, ufficialmente caduto durante uno scontro a fuoco con i carabinieri il 5 luglio 1950 nel cortile di una casa a Castelvetrano. Una messinscena. Si scoprirà che era stato venduto e assassinato in ben altro luogo, dai suoi fedelissimi (il cugino Gaspare Pisciotta per primo) e dai capi della mafia di Monreale. Quasi la stessa sorte è toccata a Totò Riina. Sacrificato per poter fare sopravvivere Cosa nostra. Dal 1993 al 1996 alla vicenda ho dedicato numerosi articoli che hanno provocato disturbo ai vertici dei reparti speciali dell’Arma, e in qualche modo smascherato la montatura sulla “più clamorosa operazione antimafia del secolo”. Con Saverio Lodato nel 1998 abbiamo firmato un libro – “C'era una volta la lotta alla mafia, storie di patti e di ricatti” (Ed. Garzanti) – dove ipotizzavamo un collegamento fra la cattura di Totò Riina e l’infinita libertà di Bernardo Provenzano, l’altro boss dei Corleonesi. Mettevamo in dubbio l’arrangiamento proposto dai carabinieri all’opinione pubblica, e a una magistratura troppo attenta a non dispiacere ai generali.
Cronache che sembrano fiction
Le indagini della procura di Palermo intorno alla cattura di Riina sono partite male e, solo dopo la confessione di un paio di pentiti, si sono orientate nella giusta direzione. Indagini che sono confluite in alcuni processi, per ultimo in quello famoso sulla trattativa stato-mafia.
Oggi abbiamo un resoconto più accettabile su come e perché il capo dei capi è scivolato in trappola ma, certamente, ancora incompleto. Continuano a circolare ricostruzioni fantasiose. Ogni tanto mi capita di leggere cronache approssimative e perfino libri che sembrano sceneggiature di fiction, l’esaltazione di eroi solitari, favole che con spudoratezza vengono riproposte nonostante i fatti abbiano sufficientemente dimostrato il contrario. Dopo trent'anni in me si è rafforzata l’idea che ho maturato da quando, dalla fine degli anni Settanta, inseguo le anse del fiume mafioso: i boss cadono quando non servono più.
Una straordinaria coincidenza
La cattura di Totò Riina ne è la dimostrazione più evidente. Direi, esemplare. Torniamo al 15 gennaio 1993. Due ore dopo la cattura all’aeroporto di Punta Raisi sbarca Gian Carlo Caselli, il nuovo procuratore capo di Palermo. La coincidenza, arrivo di Caselli-arresto di Riina, è così straordinaria che non passa inosservata neanche ai più distratti. Ma l’eccitazione stordisce. Nell’affollatissima sala della conferenza stampa, al comando dei carabinieri della legione, ci sono anche quattro o cinque alti ufficiali provenienti da Torino. Che ci fanno a Palermo? La notizia però è una sola: “U’ pigliaru”, l’hanno preso. Chi l’ha preso? Dove, l’hanno preso? Come, l’hanno preso? “Sulla circonvallazione, alla rotonda di viale Lazio”. Non si sa altro. Chiedo ad alcune fonti e non mi dicono nulla. Non mi dicono nulla perché nulla sanno. Raccolgo solo sussurri: “Questa notte c’è stato uno scazzo fra i carabinieri della territoriale e quelli dei reparti speciali”. Uno scazzo? Incomprensioni intorno all’arresto dello zio Totò? Perché? Non c'è tempo per andare dietro a contrasti o gelosie fra investigatori, il procuratore Caselli è già pronto a parlare, ordini gridati, rumori di passi. Intorno a lui il procuratore aggiunto Vittorio Aliquò e i sostituti Francesco Lo Voi e Giuseppe Pignatone, il comandante del Ros (Raggruppamento operativo speciale) generale Antonino Subranni, il suo vice colonnello Mario Mori, nell’ombra il capitano Sergio De Caprio meglio conosciuto come “Ultimo”, il comandante della legione di Palermo generale Giorgio Cancellieri. C'è anche il colonnello Domenico Cagnazzo e poi ci sono quegli ufficiali scesi dal Piemonte. L'euforia è contagiosa e i discorsi evasivi, percepisco subito che qualcosa che non quadra. Nelle ore successive un nome alla fine sfugge: è quello di Baldassare Di Maggio detto Balduccio.
L’apparizione di Balduccio
Uomo d'onore della famiglia di San Giuseppe Jato, ex autista di Totò Riina, è un mafioso in pessimi rapporti con il suo compaesano Giovanni Brusca. È Balduccio che ha dato la “battuta”, l'informazione per prendere il capo di Cosa nostra. Pochi lo conoscono, uno è sicuramente il generale Francesco Delfino che era entrato in contatto con lui – prima di transitare nei ranghi del Sismi, il servizio segreto militare – quando era vicecomandante dei carabinieri della Sicilia occidentale. Si viene a sapere che Balduccio, l'8 gennaio, viene arrestato “casualmente” in un'officina di Borgomanero, in provincia di Novara. E che vuole un incontro con il generale Delfino, un passato di operazioni opache durante le indagini sui sequestri di persona e sulla strage di piazza della Loggia a Brescia. Nell'estate del 1992, dopo l'attentato di Capaci, Delfino aveva confidato al ministro della Giustizia Claudio Martelli: “Per Natale avrà un bel regalo”. Si riferiva a Totò Riina. Generale e mago. Da dove era spuntato questo Balduccio Di Maggio? È il primo vero grande mistero della vicenda. La dinamica dell'arresto di Di Maggio è apparsa subito molto strana, e per niente accidentale. I carabinieri dicono di avere ricevuto una soffiata su “un traffico di stupefacenti” nel garage di tale Mangano, un meccanico di Borgomanero. Fanno un blitz ma non trovano né droga né quel Mangano, c'è solo Balduccio con una calibro nove infilata nella cintura dei pantaloni. Per giunta è scarica, senza caricatore. Un paio di settimane dopo la cattura di Riina vengo in possesso di un verbale di interrogatorio. È clamoroso ed è anche carta straccia. Perché ci sono tredici carabinieri del comando di Novara (un colonnello, due tenenti colonnelli, un maggiore, un capitano, un tenente, due marescialli, tre brigadieri, un appuntato e un carabiniere semplice) più Delfino che, in quanto generale non è un ufficiale di polizia giudiziaria e non avrebbe mai potuto partecipare a quell'interrogatorio, dove Balduccio Di Maggio rivela a tutti loro che può portare dritto a Riina. È come un pero appeso all’albero.
Confidenze a perfetti sconosciuti
Il verbale si apre così: “A richiesta dell'interessato che ha voluto riferire ai sottoscritti urgentemente notizie che gli sono venute alla mente e che ritiene che sono della massima importanza”. Sembra una barzelletta. Un grosso mafioso fermato – “casualmente” – che vuota il sacco sul capo dei capi della mafia siciliana. Sono le due di notte del 9 gennaio 1993, una settimana prima dell'arresto e Balduccio fornisce notizie riservatissime sul più imprendibile dei boss a perfetti sconosciuti, Delfino escluso. Fa anche un disegno della zona di Palermo dove ha accompagnato qualche volta Totò Riina, fa i nomi dei Ganci della Noce e dei Sansone dell'Uditore.
Inoltre, informa che “un tale Di Marco”, giardiniere di San Giuseppe Jato, è l'uomo che ogni mattina accompagna i figli dello zio Totò a scuola. Gian Carlo Caselli, che da lì a qualche giorno si sarebbe insediato come procuratore a Palermo, viene messo al corrente e si affida al colonnello Mario Mori, un ufficiale che ha indagato al suo fianco sulle Brigate rosse. Il generale Delfino all'improvviso sparisce dalla scena ed entra in campo Mori. Nonostante tutto abbia avuto origine da lui, il generale Delfino non si vedrà e non si sentirà mai più e neanche di striscio nell'enigmatica storia della cattura di Riina. Intanto Balduccio Di Maggio l'11 gennaio viene trasferito in gran segreto a Palermo. E intanto il capitano "Ultimo” continua a indagare sui Ganci della Noce e sui Sansone dell'Uditore. È da luglio che il Ros ha costituito un gruppo per catturare Totò Riina.
L'attenzione di “Ultimo” si concentra anche su un'abitazione a Palermo di via Bernini, civico 52/54. Ci abitano i Sansone, costruttori e mafiosi. Piazza lì un furgone con una telecamera nascosta. Fanno vedere le riprese a Balduccio, il 14 gennaio Di Maggio riconosce uno dei figli di Salvatore Riina e Vincenzo De Marco. Ma in quella casa c'è anche il capo dei capi o solo la sua famiglia?
La mattina del 15 gennaio i carabinieri portano Di Maggio in via Bernini e lui identifica dal vivo anche Salvatore Biondino (Biondolillo, lo chiama) che sta guidando un’auto, accanto c'è Totò Riina. Ottocento metri più in là, sulla rotonda di viale Lazio, l'auto dei mafiosi è imbrigliata nel traffico e "Ultimo” con la sua squadra afferra il latitante più famoso d'Europa. E da questo momento la vicenda della cattura sprofonda nel suo secondo grande mistero. Torniamo ancora alla mattina del 15 gennaio.
Il magistrato neutralizzato
Prendo per (quasi) buone le notizie che vengono diffuse in conferenza stampa ma contemporaneamente succede qualcosa. Mentre Caselli parla, il sostituto procuratore di turno Luigi Patronaggio, seguito su un'altra auto dal capitano dei carabinieri Marco Menicucci e dal tenente Andrea Brancadore, sta per andare a perquisire il covo dove presumibilmente si nascondeva Totò Riina. Viene fermato dal capitano De Caprio appena in tempo. Torna su in caserma, dove il procuratore Caselli è circondato da una mezza dozzina di ufficiali. Patronaggio, bloccato da Ultimo, vuole capire. Gli spiegano che è meglio non entrare nel covo perché, adottando la strategia “delle foglie morte” tanto cara al generale Dalla Chiesa nella sua guerra al terrorismo, senza quella perquisizione sarebbe stato più facile prendere tutti i fiancheggiatori di Totò Riina. Corda lunga per non farli insospettire. In caserma Caselli è pronto a ogni soluzione: “Fatemi sapere cosa avete bisogno, uomini e mezzi, e li avrete immediatamente”. I vertici del Ros lo convincono a non intervenire. Patronaggio è neutralizzato. Alle 11 del mattino tutti sanno che il covo di Riina è sotto controllo. Ma, incredibilmente, alle 16 di quello stesso pomeriggio, appena cinque ore dopo l’arresto, il covo via Bernini non sarà più sorvegliato. Abbandonato. Nessuno avvisa Caselli e gli altri della procura. E però, giorno dopo giorno, i carabinieri del Ros assicurano ai magistrati che “c'è un costante e attento controllo” della villa. Caselli si fida. Anche troppo. Nel frattempo, Ninetta Bagarella, moglie di Totò Riina, il 16 gennaio fa ritorno a Corleone e i magistrati ne vengono a conoscenza dal capitano della compagnia del paese. E non dai Ros che, oramai, non sorvegliano più la villa da almeno venti ore. In procura qualcuno comincia ad avere dubbi. Per depistare i giornalisti a caccia del covo, i carabinieri irrompono in un fondo vicino. È una sceneggiata, sanno bene che lì Riina probabilmente non c'è mai stato. Sono passati già dodici giorni dall'arresto e, il 27 gennaio, il colonnello Mori – circostanza annotata dall'aggiunto Vittorio Aliquò in un diario – sostiene che l'osservazione del covo di via Bernini “sta creando tensione e stress al personale operante, accennando alla sua sospensione”. Al magistrato dà la certezza che il covo sia ancora sorvegliato. “Tensione e stress al personale operante...”. Trascorrono altri cinque giorni prima di scoprire la verità. È il 3 febbraio, i carabinieri della territoriale entrano nella villa di via Bernini.
Il “tesoro” portato via
I mobili sono accatastati, le pareti ritinteggiate, i bagni ristrutturati. C'è un guardaroba blindato in camera da letto, è vuoto. C'è una botola lunga due metri, è vuota. C'è una cassaforte nella stanza adibita a studio, è vuota. Diciannove giorni dopo l'arresto del capo dei capi la villa è una scatola vuota. Si erano portati via tutto. Il procuratore Caselli s'infuria e il 10 febbraio invia una lettera al comando generale dei carabinieri e ai Ros. Chiede “spiegazioni”. Non arriveranno mai. Ma chi ha ripulito la villa? Chiunque sia stato, ne ha avuto tutto il tempo. Seguono le confessioni dei pentiti. Giovanni Brusca svela che è stato uno dei fratelli Sansone, Giuseppe, a sterilizzare gli ambienti per non lasciare una sola traccia del boss. Dentro Cosa Nostra, e anche fuori, si diffonde la notizia del “tesoro” di Riina, un archivio da far tremare l'Italia. Qualcuno mette in giro la voce che sia finito nelle mani di Matteo Messina Denaro, il mafioso trapanese che Totò Riina avrebbe voluto come suo erede. La collaboratrice di giustizia Giusy Vitale dice ai procuratori: “Se qualcuno avesse trovato le carte di Riina sarebbe successo il finimondo”.
L’incredulità dello zio Totò
Nessuno, proprio nessuno, ha mai capito perché il covo sia stato lasciato alla mercé dei mafiosi. Nemmeno il capo dei capi. Era incredulo, sbalordito. Motivazioni della sentenza d'Appello del processo sulla trattativa stato-mafia: “È un evento assolutamente unico nella storia giudiziaria degli arresti di latitanti, per i quali la perquisizione immediata dei luoghi in cui vivono è fondamentale non fosse altro per rinvenirvi elementi utili a individuare la rete di favoreggiatori... Si è già visto come lo stesso Riina, che peraltro non era un qualsiasi latitante mafioso ma il capo di Cosa Nostra, a distanza di vent’anni non riesca a capacitarsene”. Il colonnello Mario Mori ha sempre difeso l'operato dei suoi e giustificato la mancata sorveglianza “per un disguido”. Nel 1996 è partita un'inchiesta di “favoreggiamento alla mafia” contro di lui e il capitano “Ultimo”. Per due volte la procura della repubblica palermitana ne ha chiesto l'archiviazione ma un giudice, Vincenzina Massa, ha imposto l'imputazione coatta ai pubblici ministeri. Si è celebrato un lungo processo dal quale Mori (che intanto era diventato il direttore dei servizi segreti civili nel governo Berlusconi) e "Ultimo” sono usciti assolti “perché il fatto non costituisce reato”. Nonostante la sentenza, i dubbi sono rimasti. E anche tanti. “È una ferita ancora sanguinante”, ha testimoniato l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone al processo sulla trattativa, dove il mistero del covo ha rappresentato uno dei pilastri dell'accusa. Mario Mori, questa volta con il generale Antonino Subranni, era accusato di avere favorito ancora una volta Cosa nostra schierandosi con la parte più “moderata” dell'organizzazione per isolare l'ala stragista guidata da Totò Riina e i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Assolti tutti gli imputati anche lì. In qualche modo un patto ci fu (i magistrati di appello scrivono di “un'ibrida alleanza”) ma stipulato “a fin di bene”: disinnescare la minaccia mafiosa per salvare l'Italia da altri attentati.
Congiure
C'è stata congiura contro Mori e contro i suoi? C'è stata congiura di Mori e dei suoi? Negli ultimi trent'anni due “partiti” si sono scontrati su questi interrogativi e le polemiche sono state violente. Mori il diavolo, Mori il salvatore della patria. Come era prevedibile, i processi non ci hanno consegnato certezze su quel 15 gennaio, data di confine fra una stagione mafiosa e l'altra. Forse, oggi, meriteremmo di saperne qualcosa di più. E avere anche una piccola prova. Per esempio, un'immagine dell'arresto di Totò Riina alla rotonda di viale Lazio. O le parole di un testimone oculare che abbia assistito alla cattura. Magari solo un chiarimento meno offensivo di quel “disguido” sulla mancata sorveglianza del covo. Perché, dopo trent'anni, la domanda è sempre e solo una: chi e perché ha servito la testa di Totò Riina su un piatto d'argento?
Tratto da: editorialedomani.it del 9 Gennaio 2023
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