Raccontare il caso Moro è impresa ardua, e non è la sua complessità a rendere difficile il compito. Piuttosto le interferenze, le forze indirette che al di là dei protagonisti visibili – le Br, la Dc e il sequestrato – hanno avuto un peso notevole quasi forse a determinarne l’esito.
Se lo si guarda come una partita giocata tra un gruppo di rivoluzionari agguerriti e il Partito della Democrazia cristiana non capiamo nulla. Si perde finanche, come si è perso a lungo, fino alla edizione critica de Il Memoriale di Aldo Moro del 1978 coordinata da Michele De Sivo, il ruolo assolutamente centrale svolto dal protagonista: il sequestrato.
In quel bel lavoro (Ed. De Luca) al quale hanno contribuito tra i migliori studiosi (oltre a De Sivo, Francesco M. Biscione, Sergio Flamigni, Miguel Gotor, Stefano Twardzik, Iaria Moroni, Antonella Padova) si può cogliere, tra l’altro, il fitto dialogo stabilito da Moro con il mondo esterno alla sua prigione, quando, consapevole che il suo Partito e neanche i Comunisti avrebbero trattato per la sua salvezza, decise di stabilire egli stesso una trattativa, con il favore passivo dei sequestratori piuttosto confusi e in affanno sul da farsi. Nel corso del tempo si sono aggiunti tanti elementi di consapevolezza degli interessi in gioco: pensiamo solo alla centralità del ruolo della P2 su cui abbiamo certezze e indizi.
Ora uno di quegli studiosi, Miguel Gotor, tra i maggiori conoscitori del caso, in un utile libro pubblicato da Paper First (Io ci sarò ancora, ricca introduzione di Gian Carlo Caselli) dove si ripropongono le sue elaborazioni pubblicate sulla stampa nel corso degli anni, ci dice che ha svolto il suo lavoro applicando al caso Moro il “rasoio di Occam”. Cioè, secondo una sua stessa efficace definizione, senza mai moltiplicare gli elementi più del necessario. Criterio che non può che convincerci in via generale, soprattutto in quanto richiamo al senso di responsabilità e all’estremo rigore con cui si esercita la materia, ma che se fosse stato applicato davvero al caso Moro non avrebbe aiutato la consapevolezza collettiva oggi raggiunta per la semplice ragione che la verità volevano sottrarcela – del resto nei pregevoli pezzi offerti dal libro si ha una varietà di racconti laterali che apparentemente possono far venire voglia di pensare che forse siano inutili. In realtà l’autore li inserisce sempre come piccoli puzzle di un unico quadro.
Si dirà: esiste davvero quella consapevolezza? Si sono fatti passi in avanti nel consolidare il ruolo delle forze occulte e internazionali, e nella comprensione di una verità aggiustata che Gotor relega ad una tendenza critica (la chiama spiegazionista) uguale e contraria a quella dietrologica – il mio amico Sandro Provvisionato chiamava la prima ‘avantologia’. Forse è una suddivisione rigida.
La perdita di senso del caso Moro, e di altri fenomeni, ha creato una sorta di stato permanente di confusione nella mente collettiva circa la nostra storia, una perdita di conoscenza e di realtà. Oggi avremmo molto bisogno di un discorso pubblico che porti in piazza (letteralmente) cioè che si sa di quella vicenda a partire da ciò che si è voluto far credere: la Commissione parlamentare guidata da Beppe Fioroni, smontando versioni acconciate ma non svelando novità, ha certificato le fandonie che ci hanno raccontato. Eppure la mano creativa insuperabile di Marco Bellocchio è tornata indietro rispetto a quel traguardo, ricevendo critiche.
In una breve prefazione al libro il grande autore se ne lamenta. Forse perché aspettavamo la svolta politica-narrativa che in quell’opera artistica bellissima non è arrivata.
Tratto da: ilfattoquotidiano.it
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