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Intervista a cura degli studenti della “School of Public Affairs and Administration (SPAA) della Rutgers University di Newark (USA)”

Professore ci spiega in poche parole chi è Rocco Morabito?
È tra i dieci latitanti più pericolosi al mondo. Tra i mafiosi ricercati in Italia, è il numero due dopo Matteo Messina Denaro. La sua storia familiare ci dice che è il figlio di Domenico Morabito e parente di un altro boss della ‘ndrangheta, Peppe “tira dritto” Morabito. È una mente raffinata, astuto e diplomatico, ha costruito un impero economico fondato essenzialmente sugli introiti derivanti dal traffico internazionale di cocaina. Referente affidabile dei narco trafficanti dell’America Latina (messicani e colombiani). È un boss di nuova generazione in grado di gestire un patrimonio immenso fino a quando con l’inchiesta Fortaleza (nome, preso dalla località del Brasile snodo dei traffici di Morabito) fuggì dal nostro Paese per rifugiarsi all’estero. È accusato di associazione per delinquere di stampo mafioso finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e altri gravi reati. Con l’estradizione in Italia dovrà scontare trent’anni di reclusione.

Che significato ha questa estradizione in termini di lotta alle mafie transnazionali?
Evidenzia come la cooperazione internazionale tra gli Stati funzioni e quanto sia necessaria nella lotta alle nuove mafie transnazionali. Non è un caso che la cattura e la successiva estradizione siano state possibili proprio grazie ad un’efficace cooperazione internazionale tra organi di magistratura e di polizia. Quello che sostengo da oltre trent’anni, oggi trova riscontro oggettivo e non più solo scientifico.

È una vittoria dello Stato?
Mi sento di rispondere precisando di una parte dello Stato, quella sana, quella che combatte le mafie costi quel che costi. Quando lo Stato e le sue forze migliori s’impegnano i risultati non tardano a venire.

È ottimista dopo questa estradizione?
Non sono ottimista ma dico che non dovrà mai prevalere la rassegnazione, bensì la consapevolezza che la mafia si possa sconfiggere e oggi c’è stata una prova di ciò che affermo. Lo Stato, se vuole, può vincere. Per riuscirci deve creare nuove sinergie a livello globale. La collaborazione internazionale è uno degli ingredienti fondamentali della ricetta con la quale si potrà dare linfa vitale alla lotta contro le nuove mafie.
Alcuni di noi hanno genitori di origini calabresi. Secondo lei per i calabresi che significato ha questa estradizione?
Per i calabresi onesti che sono la maggioranza, è un bel segnale perché rappresenta comunque un duro colpo all’immagine d’invincibilità della ‘ndrangheta. Devo però dire di non illuderci più di tanto poiché “morto un Papa se ne elegge subito un altro”. Le mafie moderne si rigenerano in fretta e senza più lotte intestine. Mi piace però pensare che tanti calabresi onesti, seri e lavoratori siano soddisfatti e si possano sentire più vicini alle Istituzioni, sperando un giorno di potersi liberare definitivamente del cancro che li sta divorando e che si chiama 'Ndrangheta.

Ci lasciamo con una sua riflessione?
Pochi mesi fa assieme a Franco Roberti scrivemmo un articolo (tradotto e pubblicato in ben 54 Stati) nel quale evidenziammo l’importanza della cooperazione giudiziaria e di polizia a livello internazionale nella lotta alle nuove mafie transnazionali. Mi piace a tal proposito ricordare Giovanni Falcone il quale con grande arguzia e notevole anticipo su tutti sviluppò importanti indagini sul traffico internazionale di stupefacenti utilizzando proprio la collaborazione internazionale che poi lo portò alla storica operazione antidroga degli anni ottanta che prese il nome di “Pizza connection”. Chiudo auspicando che questa estradizione possa dare l’impulso all'Italia per ripartire con forza e determinazione nella lotta alle nuove mafie.

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