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«Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali, e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini…». Stamattina, alla cerimonia dei 30 anni dalla strage di Capaci, osserveremo i volti, ascolteremo i discorsi, e ci chiederemo se c'è risposta a queste parole che Giovanni Falcone pronunciò poco prima di quel maledetto 23 maggio 1992, quando Riina portò l'attacco al cuore dello Stato. Cosa resta delle sue tensioni morali? Su quali gambe hanno camminato le sue idee? Molto è cambiato. Ma non tutto. Al voto siciliano c'è un candidato di Cuffaro. Dell'Utri è tornato a sussurrare ai potenti. Toghe del calibro di Gratteri e Di Matteo manca poco che possano «andare in procura solo a fare pipì», come confessò una volta lo stesso Falcone. Mancano ancora frammenti di verità su quei terribili anni. Non solo Addaura e Capaci, anche via D'Amelio. Chi e perché inquinò l'indagine? Dov'è l'agenda rossa di Borsellino? Paolo, dopo i funerali di Falcone, disse alla sorella Maria «sto scoprendo cose che non immagini, altro che Tangentopoli». Misteri. Ma sarebbe un oltraggio a Giovanni, Francesca, Schifani, Dicillo e Montinaro pensare che il loro martirio sia stato vano. Al maxiprocesso sono stati inflitti 2.665 anni di carcere. Tanti boss, da Bagarella a Provenzano, sono finiti al 41-bis, non più all'Hotel Ucciardone. Ma molto resta da fare. Le mafie non mettono più bombe: controllano la finanza. Per questo ricordare Falcone resta un atto di resilienza civile, etica, politica. Scrive Saramago: noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo, senza responsabilità non meritiamo di esistere.

Tratto da: La Stampa

Foto © Shobha

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