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battaglia letizia vert archivio battagliaL’autore firma il racconto in due puntate della biografia della fotografa palermitana in onda su Rai 1: “Una grande donna che ha saputo raccontare la vita e la morte di una comunità assediata dalla mafia”

Ci sono lacrime che non si potranno mai asciugare. Con Letizia Battaglia, non ci ha lasciato solo una grande fotografa, una reporter che ha raccontato con immagini di straordinaria potenza la vita e la morte in una comunità assediata dalla mafia, ma anche, e soprattutto, una grande donna. Una sensibilità fuori dal comune, punto d’arrivo di una esistenza densissima di avvenimenti drammatici, espressa in una vitalità indomabile.

Letizia era fragile ma sembrava fortissima, questo il suo segreto. Col tempo, e con l’analisi freudiana, aveva saputo fare della sua fragilità una forza. Merito dell’amatissimo Francesco Corrao, geniale terapeuta che aveva incontrato a Palermo dopo una terribile crisi depressiva che l’avrebbe potuto annientare per sempre. «Io sono una di quelle che poteva non farcela», mi ha confidato più volte. È bene che lo sappiano le tantissime donne giovani e non giovani che la considerano giustamente un modello. Il grandissimo valore della sua azione civile e della sua opera di fotografa è il distillato di una sensibilità che si è affinata nel dolore e nella disperazione. E tutto quello che ha fatto, come donna, come fotografa, come militante e financo assessore, è diventato oggi un inarrivabile esempio di generosità e dedizione agli altri. Palermo, la Sicilia, l’Italia, sono in debito con lei.

Incantevole, Letizia. Non l’ho mai vista ferma, o in pace con se stessa. Sempre irrequieta, sempre appassionata di una causa per cui valeva la pena battersi. Sempre attiva in luoghi e situazioni difficili, il manicomio, le carceri, le strade dei quartieri disagiati del centro o della periferia. Sempre in prima fila nelle grandi battaglie civili, nelle lotte per il riconoscimento dei diritti. Sempre disponibile a dare asilo a persone bisognose d’aiuto, a imbarcarsi in tentativi disperati di salvezza, come quando si è portata a casa una giovane donna ospite del manicomio, e poi un dolcissimo bambino tunisino.


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Cause perse, a volte, ma sempre per omaggiare il senso più alto della vita, per celebrare l’unica cosa che la muoveva, la passione. Oh Italia, tu sei in chi ha di te pura passione, è un verso di Pasolini che sembra scritto per lei. Pasolini che aveva incontrato a Milano e che amava incondizionatamente, condividendo con il poeta l’idea che nelle cose che fai devi metterci il tuo corpo, non solo le parole. Il corpo. Era bella Letizia, lo era anche da vecchia, ma da ragazza, e poi da giovane, era una di quelle che quando passava si fermava il mondo. E questo le aveva sempre creato dei problemi.

Ma lei non si era mai fatta limitare nella sua smodata voglia di libertà. E se da bambina aveva dovuto subire il carattere autoritario del padre, e da adolescente, e giovane sposa, quello del marito, Franco, un uomo buono ma profondamente impreparato ad accogliere il suo desiderio di libertà e di cultura, in seguito aveva imparato a proteggere la propria vitalità dirompente e da allora aveva vissuto sino in fondo e intensissimamente, incontrando l’amore con uomini che spesso erano molto più giovani di lei, Santi Caleca e Franco Zecchin i più importanti. Con Santi aveva vissuto la fase della rinascita dopo il matrimonio, la scoperta della fotografia, l’apprendistato a Milano, i primi passi nel giornale L’Ora di Vittorio Nisticò, con Franco la stagione della mattanza mafiosa, il duro lavoro di fotografo nella città in mano al delirio di potenza dei Corleonesi, il riconoscimento internazionale con il premio Eugene Smith a New York, la consacrazione nel pantheon dei grandissimi.


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Franco Zecchin e Letizia Battaglia


Come Anna Maria Ortese, come Elsa Morante, anche Letizia sembrava fedele a un giuramento fatto all’Invisibile. Come scrive la Ortese, «Vera follia e vera rivolta sono solo nella obbedienza a un ordine sovrumano di pietà, e anche rigore verso se stessi».

Letizia, per quanto paradossale possa sembrare una simile affermazione per una fotografa, non si accontentava del reale, da qui derivava quell’inquietudine suprema e indomabile che ne ha caratterizzato il tratto umano, e la perenne sfida all’esistente. Nella sua febbre di vita alitava qualcosa di sacro, e per questo sembrava sempre in cerca di un’entità ignota a cui voleva ricongiungersi. Si immergeva nel mare doloroso del mondo e con coraggio affrontava il male, e lo faceva sempre nel segno del rispetto e dell’amore, con l’arma della pietà.

Eravamo molto amici con Letizia, ci volevamo molto bene. Mia moglie Lia, fotografa, è una sua allieva, folgorata da uno dei corsi che lei e Franco Zecchin misero su ad un certo punto della loro attività, convogliando giovani talenti sulle strade polverose del centro storico di Palermo. Ricordo le serate indimenticabili in casa sua con Josef Koudelka, suo amico e maestro, Ferdinando Scianna, Ettore Sottsass, le discussioni appassionate sulla primavera di Palermo, le sue iniziative editoriali fatte con pochi soldi sottratti alle sue povere tasche, come le meravigliose Edizioni della Battaglia, in cui, all’indomani delle stragi, pubblicammo qualcosa io, Michele Perriera, Roberto Alajmo e tanti altri.


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Nel 2016 il Maxxi le dedicò una grande mostra a Roma e io, che avevo scritto un piccolo pensiero per il catalogo, andai a festeggiarla. La sera del vernissage Letizia trascinò me e mia moglie in casa di una principessa che dava una festa in suo onore. Vederla così coccolata dalla borghesia romana mi mise tenerezza. Lei che ne aveva prese tante, ora, da anziana, era vissuta come un mito. Le dissi che mi era venuta voglia di fare un film sulla sua vita e lei si entusiasmò. Ne parlai con il mio produttore Angelo Barbagallo e anche lui si mostrò convinto del progetto che subito proponemmo alla Rai. Cominciammo a vederci, e lei mi raccontò la sua vita mentre mia moglie la filmava.

Con grande generosità mi fece entrare in quel recinto sacro che è la famiglia, il luogo della nevrosi, dei segreti, dell’amore che a volte diventa prigione e malattia. Anche le figlie, Shobha, (grande fotografa che l’ha amorevolmente assistita sino all’ultimo respiro) e Patrizia mi hanno offerto i loro racconti intimi e privati e gliene sono infinitamente grato. Invece, Cinzia, l’altra figlia, molto riservata, non l’ho mai incontrata. Mi sono stati molto vicini i suoi nipoti, Matteo e Marta, carissimi e preziosi. Nello scrivere il film con Angelo Pasquini e Monica Zapelli, con la collaborazione di Giulia Andò, e poi nel realizzarlo, ho cercato di mantenere sempre il senso della verità. Ma qualche volta, nel raccontare l’intreccio di privato e pubblico, ho preferito evitare situazioni che potevano turbare chi è stato protagonista di quelle vicende. Mi sono dissimulato in una biografia eccezionale e attraverso lo sguardo del fotografo ho rivissuto gli anni terribili in cui a Palermo morivano giudici, poliziotti, giornalisti, e sembrava quasi di non vivere in Italia, ma in una città sudamericana. Mi è stata complice Isabella Ragonese, un’attrice che è arrivata alla piena maturità espressiva, che lei ha voluto incontrare e ha subito amato. Ci sentivamo molto spesso con Letizia, l’ultima telefonata è avvenuta due giorni prima che morisse. Era come sempre vitale e proiettata nel futuro. Ansioso di mostrarle il film, le avevo proposto di vederlo non finito, e lei mi aveva risposto di no, e aveva aggiunto: «Non preoccuparti, non muoio prima del 22 maggio» (la vigilia dell’anniversario della morte di Giovanni Falcone, in cui andrà in onda la prima puntata della serie, l’altra è prevista proprio il 23). È l’unica promessa che questa donna tenace e invincibile non è riuscita a mantenere.
(26 Aprile 2022)

Tratto da: espresso.repubblica.it

Foto concesse dall'archivio fotografico di Letizia Battaglia ©

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