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Si chiude in primo grado il processo per le presunte violenze al Preseminario San Pio X

«Contraddizioni e illogicità» nelle accuse che il giovane seminarista muoveva contro il suo presunto aguzzino, don Gabriele Martinelli, tanto da spingere la corte presieduta da Giuseppe Pignatone ad assolvere l'imputato da ogni reato dopo un anno di udienze. In Vaticano si chiude con un colpo di scena il processo sulle presunte violenze a un chierichetto del Papa, L.G., tra il 2006 e il 2012, azzerando di fatto l'impalcatura che il promotore di giustizia aveva costruito dall'inverno del 2017 quando iniziò a indagare su quanto accadeva nel pre-seminario san Pio X che occupava due piani di palazzo san Carlo, uno degli edifici più prestigiosi del piccolo Stato. L'accusa aveva chiesto sei anni di reclusione per don Martinelli per atti di violenza carnale aggravata e atti di libidine aggravati e quattro anni per don Radice, all'epoca rettore della struttura, per favoreggiamento. Al contrario, secondo i giudici pur ritenendosi «accertati i rapporti sessuali, di varia natura ed intensità, tra l'imputato e la persona offesa, effettivamente protrattisi per l'intero arco ultraquinquennale, difetta la prova per affermare che la vittima sia stata costretta dall'imputato con la contestata violenza o minaccia». Per questo per i fatti contestati fino al 9 agosto 2008 don Gabriele non è punibile essendo all'epoca minore di sedici anni, mentre per quelli successivi è stato assolto per insufficienza di prove. Al contrario, però, il collegio ritiene che per quanto accaduto tra l'estate del 2008 e la successiva primavera si integri «comunque il reato di corruzione di minorenni che però è stato dichiarato estinto per prescrizione», maturata già nel 2014. Don Radice, invece, esce assolto perché il fatto non sussiste. Era accusato di aver scritto una lettera dalla firma apparente del vescovo di Como, monsignor Coletti, dal quale dipendeva il pre seminario ma per il collegio quella missiva «non risulta idonea a costituire alcun aiuto a eludere le indagini».
La vicenda non è ancora chiusa perché bisogna vedere se il promotore di giustizia ricorrerà in appello. Senza dimenticare che un'inchiesta gemella è ancora aperta dalla procura di Roma con un fascicolo nel quale sono finite diverse informative dei carabinieri sugli stessi fatti. È anche vero che l'ufficio del promotore di giustizia ha vissuto ieri una delle peggiori giornate nel pontificato di Francesco. La sentenza infatti smentisce la prospettazione dell'accusa che contava su uno specifico intervento del Papa che aveva tolto la prescrizione per i reati sessuali pur di permettere di accertare la verità. Sempre ieri l'azzeramento del processo al cardinale Becciu, con il collegio che ha annullato il rinvio a giudizio per la compravendita del palazzo di Londra, è figlio di una censura dei giudici nei confronti dell'ufficio del promotore tanto da dover tornare indietro.
Nei sacri palazzi c'è chi si interroga sulla compiutezza della riforma della giustizia vaticana che ha visto cambiamenti negli organigrammi, a iniziare dall'insediamento di Pignatone ma che forse non è stata così incisiva sull'ufficio del promotore. Senza sindacare ovviamente sulla riconosciuta competenza giuridica del professor Roberto Zanotti, a capo dell'accusa, e dell'avvocato Alessandro Diddi, suo primo collaboratore, ci si interroga sull'efficacia effettiva di un ufficio affidato a giuristi e non magistrati. Zanotti è infatti docente alla Lumsa mentre Diddi è un brillante penalista romano.
Di certo la macchina giudizaria in vaticano oggi non è paragonabile a quella del pontificato di Benedetto XVI nel corpo investigativo, in tribunale, e con tutti gli interventi legislativi introdotti, ma le bacchettate al promotore sono destinate, con ogni probabilità, a incidere sul futuro di quell'ufficio.

Tratto da: La Stampa del 7 Ottobre 2021

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