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Il monito del fondatore di Libera: nella società governata dal profitto e dalla disuguaglianza economica il lavoro non è più un diritto ma una concessione

Vorrei iniziare questa riflessione nel segno della memoria viva, trasformata in impegno, di due vittime innocenti dello sfruttamento sul lavoro in Puglia: Paola Clemente e Hyso Telaray.
Paola, bracciante di 49 anni morta di fatica il 13 luglio 2015 mentre era al lavoro in un vigneto di Andria.
Hyso, ucciso dai "caporali" a soli 22 anni, l’8 settembre del 1999, per non aver ceduto ai loro ricatti. A Hyso è stata dedicata la cantina della Cooperativa Sociale "Terre di Puglia - Libera Terra" in un bene confiscato alle mafie a Torchiarolo. E la stessa cooperativa ha dedicato alla sua memoria il vino "Negramaro" lì prodotto. Due storie fra tante, quelle di Paola e Hyso, che ci ricordano come nella società del profitto e della disuguaglianza economica il lavoro non sia più un diritto ma sempre più una concessione, un’elemosina. Una prestazione che non rispetta la dignità della persona, ridotta a strumento di ricchezza. Se c’è una cosa che ci chiede la crisi generata dalla pandemia - figlia di mali sociali preesistenti - è un cambiamento radicale del sistema del lavoro. Il lavoro non è né un accessorio né una prestazione occasionale e malpagata, ma un elemento fondamentale di un’esistenza degna di questo nome.
Quando è garantito, tutelato, bilanciato da diritti e doveri, il lavoro ci rende al tempo stesso artefici e partecipi del bene comune, cioè, a pieno titolo, cittadini. La Costituzione afferma, prima di ogni altra cosa, che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. Quando parliamo di etica e lavoro in rapporto all’agricoltura dobbiamo innanzitutto riflettere su come sia degenerato e in molti casi corrotto il nostro rapporto con la Terra. Occorre ripensare e rifondare la nostra relazione con la Terra perché, se è sana e giusta la relazione con la Terra, lo è di conseguenza anche quella fra gli esseri umani. Questo è il senso profondo della "ecologia integrale" a cui richiama papa Francesco nell’enciclica Laudato sì, uno dei testi più profondi e lungimiranti di questi ultimi anni. Il papa ci invita a riflettere sul fatto che crisi ecologica e crisi sociale non sono due crisi ma una, perché la relazione tra gli uomini rispecchia il modo in cui abusiamo della terra, nostra primaria sorgente di vita. Il caporalato è in un certo senso la perfetta convergenza di questo doppio sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla terra. È una delle fotografie più crude della crisi di civiltà in cui versiamo, crisi di civiltà che è al tempo stesso collasso culturale e emorragia di umanità. Ma da cosa partire per costruire un’etica della terra?
Innanzitutto dal riconoscere - come per millenni hanno fatto culture, religioni e civiltà - che la terra è materia viva e perciò dotata di un’anima. Ma l’etica deve poi tradursi in precise scelte politiche. È tempo ormai di parlare di diritti della natura, come sollecitano non solo giuristi illuminati ma movimenti e realtà impegnate nella difesa della terra. È tempo di fare della natura un soggetto giuridico, una realtà che, al pari delle persone, ha una sua intrinseca e inviolabile dignità. In Ecuador e in Bolivia - Paesi non a caso sfruttati e depredati dalle multinazionali occidentali - questa utopia è già realtà, e dallo scorso ventennio i diritti della natura sono riconosciuti nelle loro Costituzioni. È in questo quadro che va letto e affrontato il problema del caporalato e, più in generale, dello sfruttamento sul lavoro. Problema enorme che nasce dalla convergenza in molti punti tra le logiche del potere finanziario e quelle delle mafie. Quella a cui oggi assistiamo è un’osmosi, una sempre più estesa commistione di legale e illegale, quindi una progressiva "mafiosizzazione" della società e, di conseguenza - ecco il pericolo più grande - una normalizzazione del fenomeno mafioso. Fingere che il male non esiste o che ci si possa convivere. Le nuove mafie sono "imprenditoriali", flessibili, capaci di costituirsi in network per diffondere il più possibile il loro raggio di azione. Sono mafie che, salvo eccezioni come nel Foggiano, sparano meno non per sopraggiunti scrupoli morali, ma perché, semplicemente, non conviene: col denaro e con la corruzione ottengono quello che prima ottenevano con la violenza diretta e con le armi. Per questo è più che mai necessario richiamare l’attenzione sulla peste mafiosa e tutti i mali che può generare, parassiti della democrazia che svuotano di senso e di dignità le nostre vite.

Tratto da: La Repubblica - Bari

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