Non vorrei essere un magistrato di sorveglianza chiamato a valutare la concessione dei benefici penitenziari ad un detenuto condannato all’ergastolo per reati di mafia. Nessuno di noi vorrebbe, perché quel magistrato potrebbe trovarsi nella condizione di essere minacciato, di subire interferenze odiose. Eppure è quel che potrebbe accadere se la Consulta deciderà di assecondare l’Avvocatura generale dello Stato in merito alla decisione di cancellare il cosiddetto “ergastolo ostativo”, cioè quello che impedisce ad un mafioso in carcere di venirne fuori solo se decide di pentirsi e collaborare con lo Stato, provando la rottura del patto mafioso con la rete di criminalità di cui era parte.
Nella seduta di martedì 23 marzo l’Avvocatura, intervenuta attraverso l’avvocato Ettore Figliolia, ha proposto una mediazione: non dichiarate incostituzionale l’articolo 4bis (legge 203/91) dell’ordinamento penitenziario sulla “liberazione condizionale” in assenza del “pentimento” del mafioso, ma consentite che sia il giudice di sorveglianza, sempre dopo 26 anni già scontati, a valutare il percorso carcerario compiuto.
La spinosa questione nasce dalla richiesta di un uomo che, dopo 30 anni di reclusione inflitti per un reato di mafia, dice di non avere nulla da dire per dare un contributo di conoscenza allo Stato e chiede di poter accedere ai benefici concessi agli altri ergastolani: la faccenda deve farci riflettere senza furori perché quell’eventualità si può verificare. Potrebbe accadere che una persona non ha nulla di rilevante da dire, o che potrebbe farlo solo riguardo ad altre persone ormai morte.
In attesa di quella sentenza ne ho parlato molto con Giuliano Turone, a lungo giudice di Cassazione dopo aver scoperto nel 1981 gli elenchi della P2 e di cui oggi esce l’aggiornamento di Italia occulta, un best seller edito da Chiarelettere. Secondo lui, a rigore non si può escludere che un ergastolano mafioso anche non collaborante, dopo 26 anni di detenzione carceraria, non sia più legato al sodalizio di originaria appartenenza. Tuttavia, ciò deve risultare da elementi oggettivi che vadano al di là di una generica “buona condotta” detentiva. Come volete che si comportino i mafiosi in carcere? Secondo un loro codice che prevedrà assai probabilmente di non dare adito a troppe storie. Gli automatismi sono sempre un grande rischio.
Turone mi spiega che la liberazione condizionale deve sempre accompagnarsi a un’ordinanza di libertà vigilata (articoli 228 e 230 c.p.) ma “si tratta di una misura di sicurezza attualmente applicata a coloro che sono ammessi al beneficio con controlli meramente burocratici, del tutto inidonei a vagliare in modo adeguato il comportamento del soggetto ammesso alla liberazione, qualora questi fosse, appunto, un ex-ergastolano mafioso, ancorché – apparentemente – non più legato a quell’ambiente criminale”. Insomma, lo Stato deve essere in grado di riconoscere chi ha davanti: solo così può assumersi la responsabilità di concedere benefici a chi ha fatto parte di un patto mafioso, nuocendo gravemente alla società: può lo Stato farlo? Può lo Stato misurare la propria capacità investigativa?
Magari capendo bene cosa fa il detenuto condannato per mafia mandato in permesso premio “può essere una grande opportunità investigativa”, dice Turone. Perché una sentenza della Consulta (ottobre 2019) ha già giudicato incostituzionale vietare i permessi premio agli ergastolani ostativi non “pentiti” e ha concesso l’ultima parola appunto al giudice di sorveglianza: durante quei permessi si può capire cosa faccia quella persona, se incontra i suoi ex sodali oppure no. Lo Stato ha la forza per capirlo, evitando che i controlli siano ridotti alla firma settimanale in commissariato? Questo è il grande interrogativo dietro il nodo dell’ergastolo ostativo. Tutto ruota fortemente attorno a questo aspetto della faccenda.
C’è da augurarsi che la Corte costituzionale, qualora accolga la soluzione suggerita dall’Avvocatura, stabilisca paletti ferrei dentro i quali quel processo può avvenire. Deve creare le premesse per una maggiore incisività dei controlli in tema di libertà vigilata quando si tratti di ex-ergastolani mafiosi ammessi alla liberazione condizionale, insiste Turone, secondo il quale si deve esigere che vengano introdotte norme specifiche più rigorose circa le “prescrizioni” di vigilanza, che sono previste, dall’art. 228 c.p., in modo molto generico.
“Ciò sia per agevolare il lavoro dei giudici di sorveglianza alleggerendone la responsabilità, sia per evitare possibili riavvicinamenti del soggetto all’originario sodalizio mafioso di appartenenza, sia per evitare possibili tentativi del sodalizio stesso di ‘riagganciarlo’ anche con mezzi intimidatori”. Insomma, c’è un modo per bilanciare tutto, senza rinunciare che la lotta alla mafia sia rigorosa, dura, finanche spietata.
Tratto da: ilfattoquotidiano.it
Foto © Emanuele Di Stefano
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