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I giudici del processo contro Silvana Saguto e alcuni componenti e complici del “cerchio magico” che girava attorno a lei, sono rimasti per più di cinque ore chiusi in camera di consiglio, sotto la presidenza di Andrea Catalano, e alla fine hanno comunicato le loro decisioni che, per quasi tutti gli imputati dimezzano le richieste avanzate dai pm. Risultato: otto condanne e tre assoluzioni.

- per Silvana Saguto: otto anni e mezzo di carcere, più un risarcimento di mezzo milione di euro alla presidenza del Consiglio dei ministri che si è costituita parte civile e altri risarcimenti da definire in sede civile. Caduta l'accusa di associazione a delinquere.

- per Francesca Cannizzo, ex prefetto di Palermo e grande amica della Saguto, condanna a tre anni di carcere

- per Lorenzo Caramma, marito della Saguto, sei anni e due mesi

- per Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali manovratori e protagonisti del “sistema Saguto”, sette anni e sei mesi

- per Walter Virga, amministratore giudiziario, figlio del magistrato Vincenzo, un anno e dieci mesi

- per Roberto Santangelo, amministratore giudiziario, sei anni, 2 mesi e 10 giorni

- per Rosolino Nasca, colonnello della G.d.F in servizio alla DIA di Palermo, quattro anni

- per Carmelo Provenzano, ex-docente alla Kore di Enna, consulente privilegiato della Saguto e amministratore giudiziario, sei anni e dieci mesi

- per Roberto Di Maria, docente alla Kore di Enna, preside della facoltà in cui si è laureato il figlio della Saguto, Emanuele, due anni, otto mesi e 20 giorni

- per Maria Ingarao, moglie di Carmelo Provenzano, quattro anni e due mesi

- per Calogera Manta, cognata di Provenzano, quattro anni e due mesi

- per Emanuele Caramma, figlio della Saguto, sei mesi.

Sono stati assolti Vittorio Saguto, padre dell’imputata, Aulo Gabriele Gigante, già amministratore giudiziario dei Niceta, e il giudice Lorenzo Chiaramonte per il quale la Procura aveva chiesto una condanna a due anni e mezzo.
Si chiude così, in primo grado, una vicenda iniziata ufficialmente, Il 9 settembre 2015 quando la procura di Caltanissetta inviava un avviso di garanzia alla presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto e al più noto fra gli amministratori giudiziari palermitani, Cappellano Seminara, oltre che ad altri inquisiti. Corruzione, induzione alla concussione, e abuso d'ufficio i reati notificati dopo che da qualche tempo i telefoni della Saguto e dei suoi collaboratori erano stati messi sotto controllo. La cosa non era avvenuta per caso, o per iniziativa, di qualche alto magistrato, come si è tentato di far credere. Dietro c’erano stati due anni di denunce da parte dell’emittente televisiva di Partinico Telejato, con una serie di testimonianze dirette di imprenditori colpiti dal sistema predatorio messo in atto presso il tribunale di Palermo e ai quali non era rimasto altra arma che quella di gridare e rendere nota la loro condizione di vittime di un sistema ingiusto. A smuovere le acque era stato anche l’ex prefetto dell’Agenzia dei beni confiscati e sequestrati alla criminalità mafiosa Antonio Caruso, che aveva denunciato pubblicamente e davanti alla Commissione Antimafia il perverso sistema che aveva messo nelle mani di pochi amministratori giudiziari un patrimonio immenso, sequestrato con la scusa del “sospetto” di collusioni mafiose. Denunce inascoltate, al punto che Caruso fu messo o andò in pensione. Le inchieste di Telejato scoprirono come dietro c’era un meccanismo ben lubrificato del quale erano membri i cosiddetti “quotini”, ovvero professionisti in “quota” alla Saguto e al suo pupillo-ispiratore Cappellano Seminara. Parcelle da milioni di euro, svendita e rivendita di mezzi di lavoro sequestrati, assunzioni di favore, incapacità gestionale e tant’altro. In pratica a Palermo si era affermata una nuova classe politica parassitaria, diversa, ma non troppo da quella mafiosa, che aveva spadroneggiato sino ad allora, in grado di controllare la città e la provincia e di arricchirsi in nome dell’antimafia. Il cerchio si allargava anche ad altre sezioni siciliane di prevenzione. La Saguto agiva sicura di poter contare sull’appoggio e sulla protezione della corrente di “Magistratura Indipendente”, della quale facevano parte, assieme a lei, politici e magistrati ad altissimo livello. Per quasi dieci anni è stata ritenuta, come ebbe a dire Gian Carlo Caselli, già Procuratore Capo, “la donna più potente di Palermo”. Potente e osannata da tutto il mondo dell’antimafia, oltre che da quello dell’informazione. Con le intercettazioni cominciarono a venir fuori le spese pazze, sue e della sua famiglia che si aggiravano sui 10-15 mila euro al mese, ma il magistrato poteva anche godere di spese a credito nelle attività che aveva posto sotto sequestro oltre che di favori vari da parte della potente cricca di amici ai quali affidava incarichi e amministrazioni. Tutto questo è caduto di colpo, come un castello di carta, anche se in piedi è rimasto il meccanismo legale, ovvero lo strumento al quale qualsiasi giudice, anche quello “tipo Saguto” può ricorrere. Ed è proprio su questo che occorre fare una considerazione, ovvero rivedere alcuni passaggi di una legge nata al momento dell’emergenza mafiosa, ma utilizzata indiscriminatamente. Punti deboli di questa legge, secondo le direttive suggerite dall’Europa, sono il ricorso al sospetto come motivazione del sequestro, l’amministrazione equilibrata e continuativa dei beni sequestrati e, il mancato rimborso agli imprenditori riconosciuti innocenti ed estranei al sodalizio mafioso e i tempi troppo lunghi del sequestro. Una proposta possibile per evitare questa divaricazione della legge è quella di una la valutazione concordata e collegiale tra i vari settori giudicanti, da quello penale a quello preventivo, a quello investigativo, prima di procedere alla condisca definitiva dei beni. Ma sono cose che diciamo da molti anni, senza che qualcuno sia interessato a portarle avanti.

Foto © Imagoeconomica

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