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di Carlo Bonini
Il taxi in cui, alle 13.30, Massimo Carminati (in foto), camicia e pantaloni blu, si è infilato senza proferire parola per lasciarsi alle spalle il carcere di Oristano e qualche domanda a cui non intendeva rispondere, è un’immagine che converrà tenere a mente. E non perché utile a (ri)celebrare il funerale postumo - come pure accade in queste ore - dell’impianto processuale Mafia Capitale, uscito demolito dalla pronuncia della Cassazione del 22 ottobre 2019. Non fosse altro perché da quel processo “riformato” nella qualificazione dei capi d’accusa Carminati non esce certo innocente. Ma perché nell’immagine del ritorno in libertà di quell’uomo che ha segnato e attraversato la storia criminale di un trentennio - il terrorismo neofascista dei Nar, la Banda della Magliana, il ricatto costruito sul furto al caveau del palazzo di giustizia di Roma, l’osceno banchetto di corruzioni nella Roma di Alemanno - è il fallimento di un sistema giudiziario incapace di coniugare i tempi di un ragionevole processo (e dunque di una altrettanto ragionevole custodia cautelare a titolo preventivo) con l’efficacia e la certezza della pena.
Per dirla dritta e senza starci a girare troppo intorno, Massimo Carminati torna libero perché ci sono voluti otto mesi per scrivere le motivazioni di una sentenza di Cassazione (il deposito è di pochi giorni fa) che ha disposto un nuovo processo di appello che dovrà rideterminare la pena che Carminati sconterà a titolo di associazione per delinquere semplice. Otto mesi durante i quali si è definitivamente consumato il tempo che ancora consentiva di tenerlo in carcere in attesa di una pronuncia definitiva. Un tempo diventato improvvisamente più breve perché, appunto, non più misurato sul reato di 416-bis, ma sull’ipotesi, meno grave, dell’associazione a delinquere semplice (416).
Già, otto mesi.
Franco Cordero, uno dei più grandi e geniali studiosi del nostro tempo della procedura penale, scomparso appena un mese fa, amava ricordare, nelle sue indimenticabili lezioni universitarie alla “Sapienza” di Roma (performance, più che lezioni), a chiosa degli articoli del codice di procedura penale che disciplinano i tempi di deposito delle motivazioni di una sentenza, che Stendhal, nel 1838, scrisse il suo capolavoro La Certosa di Parma in 53 giorni. Meno di due mesi. La metà della metà del tempo impiegato dalla Cassazione per mettere insieme le ragioni che, il 22 ottobre dello scorso anno, l’hanno appunto convinta a smontare l’aggravante mafiosa contestata nell’associazione per delinquere di cui Carminati faceva parte. Naturalmente, non abbiamo elementi per valutare se sia stato più complesso mettere insieme le 500 pagine della Certosa di Parma o le 379 pagine di motivazioni di Mafia Capitale. Ma c’è un dato, anche questo obiettivo, che fa pensare. Nell’inverno che abbiamo alle spalle, la pandemia del Covid-19 ha di fatto congelato ogni attività di udienza, sollevando anche i collegi di Cassazione da un carico di lavoro che, sulla carta, avrebbe dovuto rendere più agevole il lavoro di scrittura delle motivazioni di procedimenti già definiti.
Evidentemente, il processo Mafia Capitale non ne ha avuto beneficio.
Anzi. È successo il contrario.

Tratto da: La Repubblica

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