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di Giacomo Costa*
Dopo la sentenza della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo: perché e come modificare l’articolo 4 bis.

1. L’articolo 27 della Costituzione non parla delle funzioni delle pene. Quali che esse siano, dice che “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nell’interpretazione corrente si deve trattare di una rieducazione morale che gli permetta di riprendere il suo posto in società. Un corollario di questa interpretazione è che non vi può essere piena attuazione dell’ergastolo: sennò come avverrebbe la reintegrazione che è il fine della rieducazione? Un secondo corollario è che l’apparato giudiziario-carcerario deve istituire un sistema di monitoraggio dei comportamenti dei detenuti, per registrare i progressi compiuti. Probabilmente questa concezione è fondata sulla credenza che i delinquenti si siano formati malamente a causa delle disastrate condizioni socio-economiche di origine. Questa credenza non è generalmente vera. Inoltre, la delinquenza può essere il risultato di elaborate dottrine o di convinzioni lungamente meditate.

2. La Corte costituzionale ha prodotto un’importante sentenza, della cui motivazione è stata anticipata una breve sintesi. Gli ergastolani mafiosi o terroristi non erano sinora ammessi, in base all’articolo 4 bis comma 1 dell’Ordinamento penitenziario, alla concessione di benefici penitenziari (permessi premio, lavoro esterno, semilibertà, libertà condizionata) se non avessero deciso di collaborare con la magistratura. Ora, osserva la Corte, ciò che va evitato è “l’attualità della partecipazione all’associazione criminale” e “il ripristino di collegamenti” con essa. La collaborazione con la giustizia è una prova sufficiente della decisione di non rinnovare tali contatti, ma non necessaria: “Se si possono acquisire elementi tali da escludere” la ripresa dei contatti, il divieto cade. Quali sarebbero tali “elementi”? Qui la Corte si fa più vaga. Non ne fornisce un solo esempio. Quali questi “elementi” siano, che occorrano o no, spetta al magistrato di sorveglianza stabilirlo, in base alla relazione del carcere e alle informazioni e pareri di varie autorità di sorveglianza (l’apparato inquisitoriale di cui si diceva).

3. Ora finalmente “tocca ai giudici giudicare!” esulta Luigi Manconi su Repubblica del 24 ottobre. Ma di solito il giudice giudica applicando la legge, ossia, i criteri suggeritigli dalla legge: che qui mancano! Osserva Hans Kelsen ne Il problema della giustizia (pagine 52-53) che di solito “ci si rifiuta di vincolare gli organi che applicano il diritto con norme generali… e di affidare ogni cosa alla loro discrezionalità, affinché possano trattare ogni caso concreto conformemente alle sue peculiarità”. Ma nel nostro caso non è questo il fine: la Corte delega al magistrato la ricerca di quei criteri sostitutivi della collaborazione di cui essa ha astrattamene ipotizzato l’esistenza, ma che non ha saputo individuare.

4. Gli ex magistrati Caselli, Ingroia e altri, hanno sottolineato che, per la natura non dei singoli uomini, ma dell’organizzazione mafiosa, l’appartenenza alla mafia è per sempre. Se ne esce o da morti, o da collaboratori di giustizia. La Corte costituzionale non è d’accordo, evidentemente, e si può simpatizzare con il suo sussulto in difesa della revocabilità della propria carriera criminale. Ma non indica alcun modo alternativo di compiere il troncamento. Resta, io temo, al magistrato solo la lettura dell’animo dell’ergastolano mafioso: affidata a un soggetto che nulla qualifica per questo difficile, forse impossibile incarico. Il ruolo del magistrato non è affatto “valorizzato” da questa micidiale delega che meglio si potrebbe affidare a una chiromante.

5. Tuttavia la sentenza è irrevocabile. Giovedì sul Fatto Quotidiano è uscito un appello per limitarne i danni potenziali: come? A mio avviso conviene restare aderenti all’impianto ipotetico adottato dalla sentenza, conservandone pienamente lo spirito. Il comma 1 dell’articolo 4 bis andrebbe così integrato: “I detenuti finora esclusi dai benefici carcerari a causa della loro mancata dissociazione dalle bande criminali di appartenenza possono farne richiesta allegando la documentazione degli atti da loro compiuti dai quali si possa inferire la cessazione definitiva dei loro rapporti con esse”. Le domande dovrebbero essere esaminate da una commissione di almeno 5 persone, che non comprendano il magistrato di sorveglianza.

* Ex professore di Economia Politica all'Università di Pisa

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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