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aereo ustica dc9 itavia 850di Raffaella Calandra
La bomba alla stazione, l’aereo su Ustica, la banda della Uno bianca. Tragedie diverse che, nel corso di una lunga stagione, hanno sconvolto la città. Unendola nella lotta per trovare risposte definitive

Seduta davanti allo scheletro del DC9 Itavia, Elisabetta sospira: «È come se tutto fosse concentrato qui dentro». Le vite perdute, le sentenze sofferte, le verità a lungo negate, le domande tuttora sospese. Come se, nell’aria densa di questo hangar divenuto museo, fossero racchiuse tutte le ferite di Bologna. La città che, più di ogni altra, da decenni insegue risposte per stragi diverse che la insanguinarono in una stessa stagione.

Palermo ha avuto i mille morti di mafia, negli anni dell’attacco frontale di Cosa Nostra; Milano fu squassata dalla bomba di piazza Fontana e dai colpi delle pistole brigatiste; Brescia ha sofferto per i lutti di Piazza della Loggia; Firenze, per quelli dei Georgofili; Napoli ha perso intere generazioni nei quartieri dove si sono ripetute le guerre di camorra, come Reggio Calabria per quelle di ’ndrangheta. E non c’è forse città italiana che non abbia pianto davanti a corpi, rigidi a terra, coperti da lenzuola bianche. Ma solo a Bologna, il dolore diventa afflato che unisce, abbraccio che avvicina e trasforma la città e i suoi abitanti in un unico corpo, martoriato. Fatto anche delle sue ferite: lo squarcio alla stazione, dove furono dilaniati 85 uomini, donne, bambini pronti ad andare in vacanza il 2 agosto 1980; le lamiere accartocciate dell’aereo abbattuto ad Ustica, in quella stessa terribile estate; e poi le lapidi, a ricordare gli anni in cui i buoni e i cattivi si confusero. E una banda di poliziotti a bordo della Uno bianca sterminò inermi cittadini e coraggiosi carabinieri. Tutti colpi, in modo diverso, ancora dolenti. Allora, quando entri nella sala d’attesa sul primo binario della stazione, o quando, nel museo di Ustica, ti ritrovi avvolto dalle voci che, nell’installazione di Christian Boltanski, si rincorrono come le conversazioni interrotte dei 77 passeggeri e dei quattro membri dell’equipaggio disintegrati insieme al DC9, sembra di sentirlo tutto insieme, il dolore antico di Bologna. Come in quelle vecchie stanze d’albergo, dove il tanfo del fumo continua a impregnare tende, mobili e carta da parati. Anche ad anni di distanza.

«Noi riproponiamo, 38 anni dopo, le nostre domande, perché aspettiamo altre risposte dall’ultimo processo in corso e dall’inchiesta aperta, oltre che dagli atti che il governo dovrebbe rendere pubblici», sospira Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto. Per chi porta avanti la battaglia per la verità sul più grave attentato mai compiuto in Italia in tempo di pace, la fiducia non è solo un atto dovuto, ma una ricerca continua. Di indizi, di documenti, di fatti da leggere in una visione unitaria. Come unitaria era la strategia della tensione, secondo l’indicazione della Cassazione, nella sentenza sulla strage di Piazza della Loggia. Una prospettiva nuova, resa possibile dalla digitalizzazione di milioni di atti giudiziari, a disposizione degli inquirenti in questa fase in cui la Procura Generale di Bologna ha avocato a sé l’indagine sui mandanti della strage; davanti alla Corte d’Assise si sta celebrando il processo contro Gilberto Cavallini, esponente di spicco dei Nuclei armati rivoluzionari, gruppo di estrema destra in cui militavano anche gli altri tre già condannati in via definitiva quali esecutori materiali della strage: Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, all’epoca minorenne. «Solo grazie alla digitalizzazione», cita come esempio Bolognesi, «è stato possibile collegare quella banconota da mille lire spezzata, trovata durante la perquisizione nel 1983 a Cavallini, con reperti della rete militare anticomunista, Gladio: erano la chiave d’accesso, per depositi di armi».

Il processo e la nuova inchiesta sono partiti anche grazie alla determinazione delle parti civili che, con i loro esposti, hanno insistito per un approfondimento di più aspetti: le tracce di un inquinamento iniziato nel marzo 1980, cinque mesi prima dell’esplosione della bomba; il percorso dei soldi pagati prima e dopo la strage da Licio Gelli, maestro venerabile della famigerata loggia massonica P2, condannato per calunnia per un depistaggio degli 007 a Bologna; l’eventuale presenza di membri dei Nar a Palermo quando, il 6 gennaio 1980, fu ucciso Piersanti Mattarella, già presidente della Regione Sicilia, fratello dell’attuale Capo dello Stato. «Ci sono altri atti nei fascicoli sul crac del Banco Ambrosiano e nomi da approfondire», rincara Bolognesi, senza nascondere le «aspettative» riposte nel dibattimento, che dovrebbe concludersi prima del prossimo anniversario. Per Bologna, il processo a Cavallini è un’immersione sofferta in quella stagione di attentati e manipolazioni. Tra gli altri hanno giù deposto in aula Mambro e Fioravanti. «Se i giudici riescono ad andare fino in fondo, potrebbe esserci molto materiale per l’inchiesta sui mandanti», è l’auspicio dei familiari delle vittime, che ogni 2 agosto insistono su un punto: la caduta effettiva di ogni segreto, come vuole la legge, definita dalla direttiva del governo Renzi, su tutti gli atti riguardanti la strage e i nomi degli iscritti alle varie organizzazioni coperte di quegli anni. «Non è un’ossessione, permetterebbe di capire il ruolo del nostro Stato e dei vari apparati». Al di là di ricorrenti piste palestinesi, smentite dalle sentenze, è l’ombra dell’intelligence e dei rapporti con l’eversione nera quella che si staglia, con sempre maggiore consistenza, dietro la strage. Ed è per questo che, secondo le parti civili, resta una fitta coltre di segreti. «Il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti», denuncia Bolognesi, «ci ha fatto sapere di non avere nessun documento dal 1980 all’87: hanno risposto che mancano gli archivi».

Anche sulla strage di Ustica nulla di ufficiale è stato mai consegnato. Ed è forse questa «reticenza complessiva», oltre all’«abbraccio di Bologna, che non riesce a non farsi carico del dolore», ad avvicinare vite e storie diverse, in un’unica battaglia che diventa dell’intera comunità: «Avere tutta la documentazione e poter scrivere la storia in modo corretto», sintetizza Daria Bonfietti, a nome dei parenti delle 81 vittime del DC9 Itavia, che quel 27 giugno 1980 era in volo verso Palermo. Fu invece abbattuto con «un atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata», come sentenziò l’allora giudice istruttore Rosario Priore, che per la prima volta, nel 1999, riuscì con la sua inchiesta a tratteggiare il contesto in cui maturò la strage, superando il muro di gomma di menzogne e versioni di comodo, dal cedimento strutturale alla bomba a bordo. Verità indicibili, faticosamente ricostruite, di aerei francesi, americani, belgi che solcavano i cieli. E di uno scenario, da poco confermato anche da un ex militare statunitense: «Quella notte abbattemmo due mig libici durante un’operazione Nato. Ci erano venuti incontro con assetto aggressivo», ha rivelato Brian Sandlin, all’epoca di stanza sulla nave Saratoga, con cui gli Usa pattugliavano il Mediterraneo. Un racconto affidato ad Andrea Purgatori per La7 che vogliono acquisire anche i magistrati di Roma, titolari del fascicolo su Ustica riaperto nel 2007, dopo le dichiarazioni dell’ex Capo dello Stato, Francesco Cossiga, che tirò in ballo i francesi per l’abbattimento del DC9.

Una richiesta di rogatoria con Washington è in atto e in passato c’è stata anche una missione in Francia, ma «è vergognoso che il governo non riesca a ottenere da questi Paesi la verità su che cosa sia successo. La menzogna continua. Francia, Stati Uniti, Libia: nessuno collabora. E dall’Italia non c’è la volontà politica di farsi dare risposte», ribadisce Bonfietti. Molti aspetti vanno ancora compresi su quella notte in cui le vite di 81 italiani finirono nelle traiettorie di un risiko internazionale che avrebbe potuto far saltare precari equilibri geopolitici. Scenari ribaditi anche da tribunali civili che hanno condannato a maxi risarcimenti i ministeri di Infrastrutture e Difesa «per omessa attività di controllo e sorveglianza», scrivono. Avrebbero potuto e dovuto proteggere il DC9 da quella battaglia aerea. Sono già tre le sentenze, a favore di familiari delle vittime e della compagnia aerea Itavia, fallita dopo la strage. Ma una sessantina di altre cause civili, intentate da altri parenti, stanno per arrivare alla pronuncia definitiva. «L’Avvocatura dello Stato non fa più neanche ricorso», nota Bonfietti, che reclama più collaborazione dall’Esecutivo, per fare chiarezza.

Chi, suo malgrado, finisce dentro la grande Storia è alla costante ricerca di risposte e collaborazione da parte di chi amministra il potere. Anche solo «per far arrivare il disappunto e la preoccupazione», sentimenti condivisi, negli ultimi mesi, da tutti coloro che a Bologna e in Romagna hanno pianto un marito, un fratello, un concittadino ucciso per mano della Uno bianca. Esattamente da quando il 2 luglio Marino Occhipinti, uno dei gregari della banda di ex poliziotti killer, condannato all’ergastolo, è tornato cittadino libero dopo 24 anni in cella. «Non capiamo e la nostra ansia ora è che, prima o poi, anche i fratelli Savi possano lasciare il carcere», si agita Rosanna Zecchi, a cui quegli assassini in divisa uccisero il marito. Per questa «rabbia e dolore» ha scelto quest’anno di non essere in città il 2 agosto, quando, davanti allo squarcio della stazione, Bologna si riscopre comunità. «Non volevo incontrare il Guardasigilli. Avrei potuto dirgli cose inappropriate», ammette la presidente dell’associazione vittime della Uno bianca, prima di annunciare che però incontrerà Alfonso Bonafede. «Sia lui sia il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, sono invitati per il 13 ottobre a Bologna, alla commemorazione delle 24 vittime, civili e militari».

La storia di quest’altra forma di terrorismo, patito dal capoluogo emiliano tra il 1987 e il 1994, è stata ricostruita dai tribunali. Le sentenze confermano che «dietro la Uno bianca, c’era solo la targa», come rispose con spregio in aula lo stesso Fabio Savi, uno dei leader della banda, insieme ai fratelli Roberto e Alberto, ed altri componenti minori, Luca Vallicelli e Pietro Gugliotta, già usciti da tempo. Ma quella «violenza gratuita fu tale da non essere spiegata neanche con la bramosia di ricchezze», si ripetono spesso i congiunti dei carabinieri uccisi al Pilastro. Oltre alle rapine, ci sono stati delitti dal bottino davvero magro. «È come se non riuscissi ad accantonare il sospetto che ci fosse un altro fine», si sfoga Zecchi, che a inizio 2018 è intervenuta, racconta, presso il ministero di Giustizia, per bloccare la riunificazione di Fabio e Roberto Savi: avevano ottenuto di stare nello stesso carcere di Bollate. Poi il capo della banda Roberto è stato spostato a Pavia. Zecchi vuole rivolgersi anche al titolare del Viminale, oltre al Guardasigilli, «perché ascolti le nostre ragioni. E sia al corrente anche della conoscenza all’epoca tra Gianni Tonelli, eletto con la Lega, e i Savi. Lui era segretario del Sap, il sindacato autonomo di polizia a cui aderivano i membri della banda». Al pentimento di Occhipinti, i familiari delle vittime non credono. «Anche se è stato condannato per aver partecipato solo all’omicidio della guardia giurata Carlo Beccari, moralmente gli attribuisco altre colpe. Perché sapeva e ha taciuto, mentre la gente qua cadeva come birilli», è l’accusa di Zecchi.

Le ferite di Bologna risalgono a 38 e 24 anni fa, ma bruciano come carne viva sul corpo della città. Quando arriva un anniversario, Bologna esce di casa, partecipa. Si emoziona. La sofferenza spesso divide concittadini, legami, coppie. Crea fazioni e risentimenti. Sotto le Due Torri, invece, il dramma di stragi ancora in cerca di piena chiarezza, amplificato «dal riverbero rosso di mura e torri», direbbe Guido Piovene, ha contribuito alla costruzione di una comunità che si specchia nei suoi dolori e che in essi ritrova pezzi d’identità. E vive della sua emotività, non nascosta, non livellata, ma nutrita da un ininterrotto ritrovarsi.

Tratto da: 24ilmagazine.ilsole24ore.com

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