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di Pietro Orsatti
Quanto è facile ammazzare un uomo. Quanto sono invece difficili da ammazzare il suo segno, le sue idee, la sua memoria. È stato facile ammazzare 40 anni fa Peppino Impastato. Uscito da Radio Aut lo hanno intercettato lungo i pochi chilometri di strada che, “via mare”, porta da Terrasini a Cinisi dove lo aspettavano la madre e la cugina “americana” in visita. Lo hanno portato in una minuscola stalla alla fine di una trazzera, lo hanno picchiato a sangue e poi posato su una sorta di rozza panca di pietre aspettando il momento buono per fare quei pochi metri fino ai binari della ferrovia e farlo saltare in aria. Quanto è facile immaginare e mettere in atto un omicidio così efferato quando la tua vita è segnata da un equilibrio perfetto sostenuto dalla violenza, dall’esercizio potere e fondato sulla paura. Il potere si sostiene su chi ciecamente è disposto a esercitarlo, in silenzio, disumanamente, per chi comanda. Quanto è facile uccidere un giovane uomo che hai visto crescere nel tuo Paese. Quanto è stato facile infangarlo, smembrarlo, ridurlo a brandelli sparsi in un raggio di centinaio di metri nella campagna che costeggiava, e costeggia ancora, i binari. Quei frammenti li raccolsero nelle buste di plastica i compagni di Peppino. Per ore sotto il sole di maggio. E raccolsero reperti, e prove, che i Carabinieri e la magistratura avevano ignorato. Prove.

Provatevi a immaginare cosa ha significato per quei ragazzi che con Peppino per anni avevano combattuto e ragionato e litigato e riso e immaginato un altro mondo possibile, raccogliere i pezzi lasciati in pasto sugli alberi del loro amico e compagno. Provate a mettervi nei loro panni. Non in quelli di Peppino, ma in quelli dei suoi amici. Quei ragazzi che intanto si trovavano sotto interrogatorio, isolati, minacciati, criminalizzati da un sistema giudiziario che aveva già deciso che la vittima era colpevole. Perché questo avevano deciso di fare. Peppino era un terrorista inesperto morto vittima della sua esperienza. Un sorta di versione minore di Giangiacomo Feltrinelli. Poi, quando l’ipotesi dell’errore del terrorista impacciato svanì, ecco pronta per la folla dei cittadini per bene la versione del “suicidio” offerta alla stampa con tanto di rilasci di “inequivocabili prove” che teoricamente dovevano essere sottoposte a “segreto istruttorio”. Quella locale, si intenda, che tutta la stampa nazionale intanto era concentrata sull’uccisione di Aldo Moro.

Dopo averlo ucciso “materialmente” lo volevano uccidere una seconda volta. Cancellarlo. E cancellare con lui una stagione di lotte, impegno, formazione collettiva. Eliminare con la violenza una generazione. Ripristinare la verità e arrivare a ottenere almeno parte della giustizia negata ha impiegato anni. Decenni

In qualche modo, in maniera meno visibile ma non meno pericolosa in termini sia politici che storici, si sta cercando ancor oggi di uccidere Peppino Impastato. Normalizzando la sua storia e le sue idee, riconducendole all’interno di un percorso che diventa sempre più asfissiante. Quello della “legalità”. Concetto che nega la disobbedienza civile, la ribellione a un sistema di potere sostenuto da una “legalità” che nega diritti e giustizia. Si lavora da anni nel tentativo di normalizzare la figura di Peppino e di quel gruppo di persone che decisero non solo di porsi contro la mafia ma contro l’intero sistema di potere politico e economico che si avvaleva anche della mafia per mantenere un ruolo dominante. “La mafia è espressione della classi dominanti” si legge nella relazione della commissione Antimafia approvata dal parlamento nel 1976. E che la mafia fosse un pezzo di un sistema Peppino lo aveva ben chiaro. Un pezzo grande per chi viveva in un territorio come quello di Cinisi, ma sempre parte di un sistema ben più ampio e complesso. Un sistema a cui era giusto ribellarsi. Ci si sono messi in molti e di impegno in questi anni a cercare di ricondurre Impastato e quell’esperienza collettiva nel rassicurante ovile del perbenismo legalitario. Una contraddizione così evidente davanti alla storia degli innumerevoli tentativi di depistaggio messi in atto proprio da chi, per funzione e ruolo istituzionale, rappresentava la legalità ufficiale mortificando la giustizia e la verità. Per fare un esempio, come definire “legalitaria” quella generazione di giovani attivisti che alla fine degli anni ‘60 organizzavano e partecipavano ai blocchi e agli scontri contro la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Punta Raisi? Quella era la generazione di Peppino che poi mise in piedi Radio Aut, quelle erano le lotte. E vennero criminalizzate e perseguite proprio dal sistema politico ed economico “legale”. Lo so, quello che affermo provocherà qualche fastidio, ma vedete davvero differenze fra chi si metteva davanti alle ruspe e ai cantieri a Punta Raisi e subiva e resisteva alle cariche di polizia con chi si è messo poi davanti ai cancelli della base di Cimiso, davanti alle centrali nucleari in costruzione, e lungo la Val di Susa per impedire la costruzione dalla Tav?

Sono passati 40 anni da quando la mafia e il sistema di potere ha ucciso Peppino Impastato. Evitiamo che un rigurgito di perbenismo mal riposto e ancor peggio giustificato lo uccida ancora. La storia è stata quella, manipolarla per ricondurla in un alveo più rassicurante è un errore che tutti dovremmo evitare di fare.

Peppino è vivo!

Tratto da: orsattipietro.wordpress.com

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