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di Chiara Spagnolo - Intervista
Il comitato provinciale ordina il rafforzamento dei controlli. Un’altra coinvolta nell’aggressione

«A Bari le donne di mafia hanno una cultura maschile e molte famiglie legate alla criminalità organizzata sono granitiche. Questo significa che non c’è stato un intervento sociale pregresso sulle zone a rischio e che adesso su questo si deve puntare: sul rafforzamento dell’intervento sociale. L’esercito non serve»
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Maria Grazia Mazzola, l’inviata speciale del Tg1 che venerdì è stata aggredita dalla moglie del boss Lorenzo Caldarola mentre preparava un’inchiesta sul quartiere Libertà, è dolorante per lo schiaffo ricevuto, ma non perde la verve combattiva né l’ansia di concludere il lavoro. Al punto che la sera stessa dell’aggressione è tornata al Libertà per raccogliere altro materiale.

Partiamo dalle condizioni di salute, come si sente?

«Ho un mal di testa feroce e nausea forte, credo a causa del trauma derivato dalla botta in testa, all’altezza dell’orecchio sinistro. Mi hanno dato dieci giorni di prognosi e l’uso del collare poi mi sottoporrò a una visita ortopedica per capire se ci sono problemi».

Lo schiaffo della signora Monica Laera, le sue urla, servivano per allontanarla ma anche per intimidirla, per dire “non si parla con noi né di noi”.
«Io non mi sento affatto intimidita, tant’è che sono tornata lì a finire il lavoro. Ora continuerò in altre città e a fine marzo andrà in onda lo speciale del Tg1 su giovani, mafia e violenza. Il problema è piuttosto il peso che quel gesto contro di me avrà sulla gente del quartiere, sui ragazzi soprattutto. L’ostentazione della forza è un segnale eclatante da parte di chi vive nella cultura mafiosa, che serve ad intimidire prima di tutto chi gli sta attorno».

ciotti manif bari aggressione mazzolaChe cosa serve per dare ai cittadini del Libertà, ai giovani in particolare, la possibilità di svincolarsi da questa cultura?
«Interventi sociali di risanamento innanzitutto. L’ho detto al sindaco Antonio Decaro, quando mi ha telefonato: dove c’è stata l’aggressione bisogna far crescere un albero. La reazione a quanto accaduto non deve essere emotiva per questo dico ai politici: andate a cercare questi giovani, se non arriva lo Stato, arrivano altri e se li prendono».

Concretamente come si fa?
«Mandando squadre di assistenti sociali, cercando i ragazzi che non vanno a scuola, che non lavorano. E poi rafforzando l’opera della parrocchia del Redentore, don Francesco Preite va sostenuto di più, gli vanno affiancati altri operatori. Proprio attorno al suo oratorio ho trovato ragazzi straordinari, di grande spessore morale, che meriterebbero medaglie al valore per il loro coraggio. Ho sentito figli di mafiosi, di gente che sta in carcere, che vogliono affrancarsi con l’istruzione, trovare un lavoro, guadagnare in maniera lecita».

Alla luce del suo lungo lavoro di inchiesta sulla criminalità, ritiene possibile questo affrancamento, da ambienti e culture mafiosi?
«Si. L’ho visto accadere in diverse parti d’Italia, in Calabria, per esempio, una delle regioni in cui la mafia sembra più dura e avvolgente. Grazie al presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella, è nato il protocollo “Liberi di scegliere” e ora ci sono madri che chiedono di andare via con i loro figli o di affidarli a famiglie del nord. Questa è l’Italia in cui credo, quella delle famiglie per bene che prendono in affidamento i figli dei boss. Un Paese di cui però noi giornalisti dobbiamo parlare di più, non dobbiamo raccontare solo il male ma anche quest’Italia che reagisce».

Che ambiente ha trovato a Bari? Che tipo di mafia?
«È una città splendida, con questo mare che metaforicamente indica tante strade, tante possibilità di movimento e cambiamento. Ma c’è una cultura mafiosa diversa dalle altre, a tratti anche più granitica. La donna dei Caldarola con il cazzotto che mi ha dato ha risposto a tutte le mie domande. Ha dimostrato che quei ragazzi sono deviati perché lei li ha fatti crescere così, che non è stata capace di inglobare nel loro destino strade alternative. Ripeto: la graniticità di queste famiglie dimostra che non c’è stato intervento sociale pregresso. E che ora bisogna bucare questa impermeabilità, la convinzione che lì dentro non si possa entrare. Forse il vero problema è che nessuno ci ha mai provato».

Oggi, intanto, si terrà una manifestazione pubblica al Libertà, sarà utile?
«Ben venga. La presa di coscienza è importante. I ragazzi devono vedere che nessuno si è spaventato e che loro, chi mi ha aggredito, andrà in Tribunale e pagherà il conto».

Tratto da: La Repubblica dell'11 febbraio

In foto: Maria Grazia Mazzola e don Luigi Ciotti, fondatore Libera, durante la manifestazione al rione Libertà

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