de Il Fatto Quotidiano
L’urlo dell’avvocato Giulia Bongiorno a reti unificate è stato un colpo di teatro, da ricordare nei manuali di comunicazione. Ora è scolpito nella mente di molti italiani
“Assolto! Assolto! Assolto!”. Parole urlate a piena gola in un telefonino, sottolineate con un energico pugno sul tavolo, in mezzo a una folla di microfoni e telecamere, da un avvocato in toga raggiante di felicità. Era Giulia Bongiorno, nell’atto di comunicare al suo cliente l’esito di un processo. Tanta esultanza dipendeva dal fatto che il suo cliente non era un imputato “qualunque”, ma Giulio Andreotti: l’uomo politico più potente dei primi quarant’anni della Repubblica italiana. Neppure il processo era “qualunque”, perché il reato contestato era tutt’altro che una bagattella: mafia.
A onor del vero, il triplice urlo “assolto!” non combaciava con una parte essenziale del dispositivo della sentenza che il presidente della Corte di appello di Palermo aveva letto pochi attimi prima. Un dispositivo semplice e breve, di sole otto righe. Che testualmente dichiarava commesso (commesso!) fino alla primavera del 1980 il reato ascritto all’imputato. Reato commesso (commesso!), ma estinto per prescrizione. Non per altra causa, men che mai per “assoluzione”. Per l’imputato, un macigno pesante come una montagna intera. Ma l’urlo del difensore di Andreotti a reti unificate è stato un memorabile colpo di teatro, da ricordare nei manuali di comunicazione. È ancora scolpito nella mente di molti italiani e ne ha fortemente condizionato le opinioni in senso innocentista. In un Paese più accorto si sarebbe quanto meno notata l’insanabile contraddizione logica (non solo tecnico-giuridica) fra “assoluzione” e “reato commesso”. Assolto per aver commesso il reato? Un ossimoro da capogiro. Un oltraggio al buon senso. Vi è stata invece una massiccia e molto efficace attività di manipolazione dell’informazione che ha portato buona parte degli italiani – ancora oggi – a credere che Andreotti sia stato totalmente e felicemente assolto. La verità è stata letteralmente fatta a brandelli. E proprio da un’esigenza di verità nasce l’idea di questo libro sul processo Andreotti – avviato dalla Procura di Palermo nel marzo 1993 e conclusosi il 15 ottobre 2004 con la definitiva sentenza della Cassazione –, per anni al centro di furibonde e fragorose polemiche politico-mediatiche. Anche a distanza di oltre dieci anni dalla fine dell’iter giudiziario e a cinque anni dalla morte dell’imputato, riteniamo utile ricostruire le tappe di una vicenda che, al di là delle risultanze processuali e delle singole responsabilità penali, permette di comprendere alcuni aspetti essenziali della storia recente del nostro Paese. (…)
Il processo ha affrontato (e cercato di decifrare) i nodi del patto di scambio politico-mafioso, dell’aggiustamento dei processi e delle relazioni pericolose tra mafia, politica, imprenditoria e massoneria. Esso si iscrive in una cornice più ampia, quella della strategia complessiva di Cosa nostra. Una organizzazione criminale con una rigida struttura gerarchica e territoriale, che nel periodo della sua massima espansione (anni Ottanta e Novanta) assume le caratteristiche di un vero e proprio Stato illegale. Con un suo ordinamento giuridico costituito da strutture istituzionali (al vertice la Commissione, poi i capi-mandamento e i capi-famiglia). Strutture che svolgono funzioni di governo e di “politica estera” (attraverso le cosiddette “relazioni esterne” con segmenti importanti dell’economia, della politica e delle istituzioni); nonché di “giurisdizione” (con sanzioni fino all’omicidio per gli affiliati che violano le “regole”) e di imposizione fiscale (che, al di là dell’eufemismo, si concreta in sistematiche condotte estorsive e nelle collaterali attività delittuose). La politica di relazioni esterne con la società e lo Stato è caratterizzata da un susseguirsi di rapporti – a seconda della stagione – di coesistenza, o di compromesso, o di alleanza, o di conflitto. Dalla strage di Portella della Ginestra al golpe Borghese; dagli omicidi politico-mafiosi degli anni Settanta e Ottanta alla stagione del pool antimafia e del maxi-processo; dalla strategia stragista degli anni 92-93 con la cornice delle “trattative” 1, fino agli scenari attuali di Cosa Nostra. Al riguardo il processo, al di là del verdetto “tecnico”, ha fatto emergere un imponente ammontare di informazioni. Alcune di carattere generale, ad esempio sulla cosiddetta “criminalità dei potenti”, ovvero sulle modalità nascoste con cui alcuni segmenti della classe dirigente hanno gestito il potere nel corso di molti decenni. Altre informazioni riguardano più in particolare gli scambi occulti tra la mafia e certi settori del potere politico e del mondo imprenditoriale. E ancora, il processo ha fornito ragioni fondatissime per una riflessione seria sul ruolo della politica e della legislazione: purtroppo le varie riforme succedutesi negli anni – anziché introdurre strumenti idonei a scoraggiare i vari tipi di complicità sotterranea tra poteri ufficiali e illegali – hanno a volte reso ancor più difficile la repressione penale in questo settore. Insomma, è evidente già da questo rapido sommario che la posta in gioco era enorme, non solo per le ricadute sui diretti protagonisti delle vicende processuali, ma soprattutto e più in generale per l’insieme della politica italiana, e i suoi interessi non sempre confessabili. Ne è derivata – con formidabile sostegno mediatico – una tempesta di vere e proprie “bufale” (quelle che oggi vengono chiamate fake news), miranti a screditare il processo dalle fondamenta. Proprio come era accaduto nel 1987 al pool di Falcone e Borsellino, esattamente dieci anni dopo (a partire dal 1997) inizia contro i magistrati della Procura di Palermo una analoga campagna di delegittimazione, che vede ripetersi un repertorio collaudato di insinuazioni e accuse. Anche in questo caso, dal piano delle critiche – ovviamente sempre lecite – al modo in cui vengono istruiti i processi o vengono utilizzati i “pentiti”, si passa alle aggressioni e alle calunnie. La protervia dei detrattori costruisce un vero e proprio catalogo di menzogne cui poter liberamente attingere per screditare il lavoro della Procura nelle varie fasi del processo. Così, quello contro Andreotti diventa un “processo politico”; gestito da magistrati “politicizzati” per fini di parte; contrassegnato da un uso abnorme degli strumenti giudiziari per scopi personali di potere; basato sulle dichiarazioni di “pentiti” prezzolati; manipolato proteggendo illecitamente criminali incorreggibili (primo fra tutti Baldassarre Di Maggio, quello del famoso “bacio”); oppure impedendo la testimonianza dei mafiosi che – come si è sostenuto argomentando un tanto al chilo – avrebbero potuto smentire le accuse di Tommaso Buscetta.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 7 gennaio 2018
Foto © Shobha