di Antonio Ingroia
Ho smesso da tempo di partecipare alle commemorazioni ufficiali per le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Non sopporto la triste inutilità di certe occasioni, in cui la memoria si diluisce nella retorica e viene offuscata da un’insopportabile ipocrisia. Tante frasi fatte, le solite facce da circostanza, mentre la verità su quello che accadde davvero in quegli anni, su chi ci fu davvero dietro le stragi del 1992-93, resta un tabù su cui non si può indagare: si deve solo dimenticare e tacere. E allora si piange Falcone ma nello stesso tempo si isola e delegittima Nino Di Matteo, titolare del processo sulla trattativa e per questo magistrato scomodo.
Ogni anno è peggio, ed è questa la ragione per cui preferisco ricordare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino dove non ci sono riflettori né passerelle, dove non c’è smania di protagonismo opportunista. Così, in questo 25esimo anniversario sarò al fianco di Maurizio Ciaculli, uno dei tanti siciliani dimenticati che si oppongono quotidianamente a mafie e intrallazzi e perciò rischiano in silenzio in prima persona. Allo stesso modo mi piace incontrare i più giovani, i ragazzi delle scuole e delle università, che conoscono troppo poco della stagione delle stragi e di quello che sono stati Falcone e Borsellino, di come hanno impresso una svolta decisiva nella lotta alla mafia, ma anche di come sono stati lasciati soli, di come sono stati delegittimati, di come sono stati poi mandati a morire.
Non fosse stato ucciso dal tritolo di Cosa nostra il 23 maggio 1992, assieme alla moglie Francesca Morvillo e agli uomini della scorta, Giovanni Falcone avrebbe 78 anni. Era nato a Palermo il 18 maggio 1939, quando fu ucciso aveva quindi appena compiuto 53 anni. Avevamo festeggiato la settimana precedente, prima in procura e subito dopo con un pranzo in un locale palermitano, insieme a Paolo Borsellino e ad altri colleghi. Proprio Borsellino, che era uno cui piaceva scherzare, anche sulle cose più serie, fece allora una battuta che si sarebbe poi rivelata tragicamente profetica. Rivolgendosi a Falcone, lo ’rimproverò’ di averlo ‘fregato’, perché era riuscito ad arrivare a 53 anni mentre lui era convinto di morire a 52, com’era successo a suo padre e suo nonno. Una settimana dopo ci fu la strage terribile di Capaci, che si portò via Falcone, due mesi dopo ci fu l’attentato di via D’Amelio, in cui fu assassinato Borsellino. A 52 anni.
Ricordare entrambi è un dovere. Sempre. Io ho avuto la fortuna di essere il primo magistrato assegnato a Giovanni Falcone in tirocinio professionale come uditore giudiziario, come si diceva all’epoca. Quando mi vide per la prima volta rimase sorpreso. Non era stato informato del fatto che gli era stato assegnato un magistrato di prima nomina, per cui il mio arrivo, un po’ un intruso nel suo bunker, gli creò un momento di breve ma visibile smarrimento. Da lì nacque poi un rapporto fatto di scambio di idee e di vedute, soprattutto di apprendimento da parte mia, ma anche di confidenza e di condivisione, che è stato preziosissimo per me.
Mi sono chiesto e mi chiedo spesso quale enorme contributo avrebbe potuto ancora dare Falcone se avesse avuto più tempo, quali altri passi avanti avrebbe fatto fare al Paese, non solo nella lotta alla mafia ma più in generale per rendere l’Italia un posto migliore, più giusto, più onesto, libero. Era un innovatore straordinario , avanti di anni. E’ stato il primo ad imporre la scientificità del metodo d’indagine, un metodo basato sull’utilizzo scrupoloso dei collaboratori di giustizia e delle intercettazioni ma anche, sempre, sui necessari riscontri documentali. E’ stato il primo a capire che per trovare tracce delle attività illecite bisognava seguire i movimenti del denaro, occorreva individuare i canali attraverso cui i capitali criminali venivano riciclati per essere reimmessi in attività lecite. Per questo avviò indagini finanziarie presso banche e istituti di credito in Italia e all’estero, attirandosi ovviamente l’ostilità del sistema bancario e dei gruppi di potere ad esso collegato. Esaminava a mano, personalmente, migliaia di assegni bancari, studiando ciascuna delle girate alla ricerca di connessioni che avvalorassero ipotesi investigative, reti di relazioni inconfessabili. L’idea era semplice ma a suo modo rivoluzionaria: seguire i capitali mafiosi per arrivare ai mafiosi, anche cercando lontano, dall’altra parte del mondo, perché la mafia aveva smesso già all’epoca di essere una questione strettamente siciliana per diventare un fenomeno criminale internazionale. Sua fu anche l’intuizione di istituire una Procura Nazionale Antimafia, un organismo giudiziario con il compito di coordinare le inchieste delle diverse procure distrettuali antimafia. Aveva capito che era necessario ricreare, su scala nazionale, le condizioni che erano state alla base del lavoro del pool antimafia.
Ci sarebbe tanto altro da dire dei successi di Giovanni Falcone, e invece è paradossalmente più importante ricordare le sue sconfitte. Doveva prendere il posto di Antonino Caponnetto a capo dell’ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli, che aveva scarsissima esperienza di mafia e che presto smantellò il pool. Si candidò ad Alto Commissario per la lotta antimafia e gli fu preferito Domenico Sica. Si candidò al Csm e i suoi stessi colleghi lo bocciarono. Si candidò a guidare la Superprocura e il Csm gli oppose Agostino Cordova. Non furono sconfitte sue, furono le sconfitte di una magistratura prigioniera di gelosie assurde e di un Paese miope, sempre pronto a versare lacrime piene di ipocrisia per i suoi uomini migliori una volta morti ma mai attento a difenderli e supportarli quando sono vivi. Così è successo a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che sono stati ingiustamente attaccati, accusati di utilizzare la loro azione giudiziaria per finalità politiche, che sono stati infamati, lasciati soli e anzi isolati, delegittimati, di fatto consegnati nelle mani dei loro assassini. Non volevano essere eroi e sono sicuro che, se potessero, rifiuterebbero l’etichetta di eroe anche adesso. Erano piuttosto uomini giusti, seri e tenaci, che credevano nel loro lavoro e lo facevano al meglio, che avevano la passione per la giustizia, l’insofferenza di fronte a privilegi e ingiustizie, la dedizione alla verità. Sono diventati martiri loro malgrado.
Nei loro confronti abbiamo il dovere della memoria e dell’impegno, ma basta ipocrisie! E’ troppo facile ricordarli nei giorni delle commemorazioni ufficiali, pensando che possano bastare una cerimonia solenne e qualche bella parola. La vera sfida è ricordarli ogni giorno, rilanciando la loro straordinaria lezione, raccogliendo e rinnovando l’enorme eredità etica e morale, prima ancora che professionale, che ci hanno lasciato, traducendola in un impegno quotidiano e intransigente per costruire un Paese migliore, per ottenere finalmente verità e giustizia sulla stagione delle stragi, sui troppi misteri di Stato e di Stato-mafia sul cui altare sono state sacrificate tante vittime innocenti. Dobbiamo meritarci il loro sacrificio seguendo la strada che hanno tracciato. Oggi, domani, sempre. Solo così potremo dire che non sono caduti invano.
Foto © Shobha
Tratto da: lagiustizia.info
Falcone e il dovere della memoria senza ipocrisia
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