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armeli iapichino luciano 500di Luciano Armeli Iapichino
Per dirla come Lionello Venturi, uno dei tanti docenti universitari che pagarono con la revoca della cattedra il netto rifiuto di giurare lealtà al regime fascista, a Viterbo, nel processo Manca va in scena un “sistematico assassinio dell’intelligenza”. L’orrore e la mattanza subiti dal giovane urologo siciliano, impressi nei fotogrammi della sua morte, dinanzi a cui una nazione intera si è raggelata e indignata, si sono tradotti sin dall’inizio in una commedia processuale e, alla fine, se l’esito sarà connesso ad un’assunzione volontaria di eroina, in una tragedia che resterà come onta vergognosa nella letteratura giurisprudenziale; uno di quegli scandali di Stato come tanti ancora irrisolti, sbattuti in faccia ad un’opinione pubblica inerme e, ancor peggio, vilipesa nella sua capacità di discernere il male e il bene, il corrotto e l’incorruttibile, il criminale e l’onesto, il complice e la giustizia.
L’avvicendarsi di nemici di Attilio, rigorosamente di Barcellona Pozzo di Gotto, a raccontare il “verbo” della tossicodipendenza “all’alta” corte, preconfezionando, pertanto, un suggestivo impianto testimoniale per la legittimazione di una morte per droga – imputata Monica Mileti, sventurato capro espiatorio di questa pièce teatrale - è la linea prevedibile lungo la strada di un’eventuale quanto vergognosa chiusura del caso senza traumi.
Almeno per nessuno dei colpevoli, dei complici e, chissà, dei banditori dell’eventuale sentenza!
In altre parole, per il povero medico siciliano, nessuno vuole sporcarsi le mani.
L’ultimo in ordine di tempo, almeno per il momento e in attesa di altre palate di fango, è stato tale Guido Ginebri. Quindi, da un lato c’è la convocazione di testi che raccontano la “loro verità”, e dall’altro? E dall’altro il nulla! La controparte? Assente perché estromessa: nessuno può sconfessare i profeti delle sacre verità assurti, tutti, a Cristi nel giardino degli ulivi e con esistenze votate all’etica più nobile.
In tutti questi anni qualche anonima voce ha esternato un pensiero sulla vicenda Attilio Manca-Provenzano-Istituzioni deviate; pensieri, per così dire, di certo insignificanti come il ruolo di chi li ha proferiti. Iniziò tale Sonia Alfano, figlia di Beppe, giornalista trucidato dalla mafia, Presidente dell’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia e già presidente della Commissione speciale antimafia del Parlamento Europeo, che Bernardo Provenzano l’ha guardato negli occhi, per la quale Attilio Manca è vittima di quel letale sistema masso-mafioso che controlla la giustizia messinese. Poi osò proferire parola, un certo Niki Vendola, allora presidente della Regione Puglia, già vice-presidente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della mafia, che sul caso aveva sentenziato: Attilio Manca è una vittima di mafia. La sua unica “colpa”, forse, è stata quella di essere un luminare di urologia, una “eccellenza” di questo nostro Paese malato. Malato di corruzione, d’indifferenza, malato di mafia. Nulla! La Procura di Viterbo e l’élite investigativa hanno sempre avuto le idee chiare sulla morte del medico per inoculazione volontaria di eroina sull’avambraccio sbagliato. D’impronte, di verbali manomessi, di tabulati telefonici, di referti autoptici monchi e imbarazzanti, neanche a parlarne.  Un altro insignificante personaggio, forse in pieno delirio d’onnipotenza o razionale incoscienza, Luigi de Magistris, già magistrato e attuale sindaco di Napoli, ha osservato, addirittura, con riferimento a questa vicenda che certe volte si vuol far cadere nell’oblio, nella deformazione o nel cambiamento della realtà queste storie, invece bisogna parlarne. Bisogna pretendere giustizia, bisogna sconfiggere le deviazioni che stanno all’interno delle istituzioni, i poteri occulti, insomma è una storia vera sulla quale non c’è stata ancora giustizia. Roba da pazzi. E comunque da ridicolizzare. Per non parlare poi dei motivi che hanno spinto Antonio Ingroia ad affiancare l’altro legale della famiglia Manca, Fabio Repici, nell’azione processuale a difesa della dignità di Attilio Manca e dell’oggettiva verità della sua morte: in questa vicenda, ha affermato l’ex magistrato, il senso di giustizia, il buon senso è stato sfregiato come non mai … e questa volta l’ingiustizia non è attribuibile, come si fa spesso, alla politica ma alla magistratura stessa; ovvero spesso può esserci una giustizia non giusta anche a causa di una magistratura, nella migliore delle ipotesi, pigra, omologata, compiacente, a volte, anche collusa.
Asserzioni, queste, forse attribuibili ai Paesi dittatoriali del Sud-America di qualche decennio fa, non certo a un sistema politico-giurisprudenziale campione di trasparenza, etica ed efficacia a servizio dei cittadini quale il nostro. Del resto, il legale è di parte a differenza dei testimoni-chiave che nel processo, di contro, di parte non lo sono.
E potremmo continuare con le audizioni della Commissione Parlamentare Antimafia sul caso Attilio Manca, dove sono emerse palesemente anomalie e superficialità sulla gestione da parte della Procura viterbese bollate, per bocca di Claudio Fava, Vice-presidente, come sciatterie giudiziarie. Ma non basta! Non basta, forse, per gli addetti ai lavori se un collega come Nino Di Matteo parla, con riferimento al corpo di Attilio, di segni chiari di violenza o di un possibile collegamento della morte dell’urologo con Bernardo Provenzano nella plausibile ottica di un omicidio volto a eliminare un testimone scomodo. Ginebri e company sono più convincenti!
Lo sono più anche di quei medici e paramedici del Belcolle di Viterbo che hanno escluso categoricamente la consuetudine di Attilio Manca ad assumere droghe; del resto era un professionista che operava al millimetro. In questa triste storia si collocano: da un lato, l’impegno di Re Magi a “onorare” il defunto, portando dopo un lungo pellegrinaggio a Viterbo “testimonianze e nitide esperienze di eroinomani vissute in tempi indefiniti”. Dall’altro, un esercito di persone insignificanti fatto di magistrati, ex magistrati, parlamentari, medici, paramedici, cui si aggiungono un altro drappello di giornalisti, intellettuali fantasiosi e una crescente opinione pubblica sconvolta da tanto crimine, a voler supportare nella vecchiaia una famiglia siciliana che, con l’orgoglio del lavoro onesto, aveva messo a disposizione del progresso della scienza uno specialista d’avanguardia. Ai giudici, Viterbo-Roma, l’ultima parola. Scriveva Arthur Schnitzler, drammaturgo austriaco: quando l’odio diventa codardo, se ne va mascherato in società e si fa chiamare giustizia.
Se c’è un giudice equo, la sentenza sarà equa. E lo sarà non solo per Attilio Manca, per la sua famiglia, per questa pseudo-forma di civiltà che il sistema-Italia è riuscito a instaurare. Lo sarà, anche, per la coscienza del giudice riflessa negli occhi dei suoi figli al suo rientro a casa da lavoro. Lo stesso giudice che, in quegli orribili fotogrammi del massacro del giovane medico, non vorrebbe mai vedere i figli del popolo italiano. Compresi i suoi. Lo stesso giudice che dinanzi a una palese ed efferata tortura non può girarsi dall’altro lato e dormire con la coscienza tranquilla.

In foto: lo scrittore Luciano Armeli Iapichino

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