di Marco Travaglio
Lui sapeva chi erano i consulenti esterni (spioni, politici, imprenditori e neofascisti) della commissione regionale di Cosa Nostra che Totò Riina riunì tra l’ottobre 1991 e il gennaio 1992 in una masseria presso Enna per progettare la strategia eversiva a suon di bombe da attuare se a gennaio la Cassazione avesse confermato le condanne dei boss al maxi-processo.
Lui sapeva chi garantì a Riina “buone cose per noi” se avesse “fatto la guerra per fare la pace” con lo Stato.
Lui sapeva perché, dopo la sentenza del maxi, Riina eliminò Salvo Lima e Ignazio Salvo e progettò di proseguire con Andò, Mannino, Vizzini, Martelli e Andreotti, e poi cambiò programma.
Lui sapeva perché il neofascista Elio Ciolini, in carcere a Bologna, era al corrente della strategia stragista. Così come l’agenzia romana “Repubblica”, legata all’andreottiano Vittorio Sbardella.
Lui sapeva cosa gli disse l’amico Vito Ciancimino, a fine marzo 1992, su chi stava “riempiendo la testa di promesse a Riina”.
Lui sapeva perché Riina accantonò i bersagli politici e passò ai magistrati, a partire da Giovanni Falcone. E perché Falcone fu assassinato a Palermo e non a Roma, dove lavorava e i killer l’avevano pedinato; e durante il voto sul capo dello Stato, stroncando le aspirazioni di Andreotti.
Lui sapeva cosa offrirono il colonnello Mori e il capitano De Donno del Ros a Vito Ciancimino a giugno, per avviare la trattativa con Riina in cambio della fine delle stragi.
Lui sapeva cosa chiese Zu Totò nel famoso papello, tant’è che lo trovò “improponibile” e incaricò Ciancimino di scriverne una versione più accettabile per lo Stato.
Lui sapeva quali ministri e politici della Dc e del Pds coprivano le spalle al Ros che trattava con Cosa Nostra.
Lui sapeva perché, meno di due mesi dopo la strage di Capaci, Riina decise urgentemente di eliminare Paolo Borsellino, che aveva saputo della trattativa e indagava sui moventi e i mandanti (non solo mafiosi: “Un amico mi ha tradito”) di Capaci e della strategia stragista, oltre ad aver appena parlato di indagini in corso sui rapporti tra Vittorio Mangano, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri in un’intervista a Canal Plus.
Lui sapeva dei contatti fra il boss di Altofonte, Antonino Gioè, e un altro carabiniere, il maresciallo Roberto Tempesta, tramite il neofascista-confidente Paolo Bellini, per una trattativa parallela fra Stato e mafia sul recupero di opere d’arte rubate.
Quel Gioè che, all’indomani delle stragi del 27 luglio 1993, fu suicidato nella sua cella di Rebibbia dopo le visite di agenti dei servizi segreti.
Lui sapeva perché, nell’autunno ‘92, fu scelto come nuovo referente della trattativa al posto di Riina, tant’è che Ciancimino gli recapitò per conto del Ros una cartina di Palermo, che lui restituì con i possibili nascondigli di Totò ‘u Curtu cerchiati in rosso.
Lui sapeva perché il suo fedelissimo Balduccio Di Maggio, già autista di Riina e nascosto a Borgomanero, fu “arrestato” dai carabinieri per porto abusivo di una pistola e chiese subito di incontrare il generale Antonio Delfino, che scavalcò i pm e lo portò a Palermo al Ros impegnato nella caccia a Riina.
Lui sapeva perché, arrestato Riina il 15 gennaio 1993, il Ros convinse con l’inganno la Procura a non perquisire il covo, lasciandolo incustodito, e cosa c’era nelle carte del Capo dei Capi finite in mano sua dopo la perquisizione mafiosa.
Lui sapeva perché, nella primavera-estate ‘93, Cosa Nostra tornò a seminare terrore e morte a Firenze, Milano e Roma, mentre il governo Amato preparava l’alleggerimento del 41-bis.
Lui sapeva perché nel 1993 nacquero le “leghe meridionali”, come Sicilia Libera, e perché questa fu subito sciolta per puntare su Forza Italia, appena fondata da Berlusconi da un’idea di Dell’Utri.
Lui sapeva perché Mangano incontrò più volte Dell’Utri a Milano tra il ‘93 e il ‘94. E perché Cosa Nostra abbandonò il progetto di una strage di carabinieri allo stadio Olimpico di Roma, dopo un primo tentativo fallito, alla vigilia delle elezioni del 27 marzo 1994, vinte da Forza Italia.
Lui sapeva perché il Ros si voltò dall’altra parte e non lo arrestò il 31 ottobre 1995 nel casolare di Mezzojuso, indicato dal boss Luigi Ilardo, confidente dell’Arma, al colonnello Michele Riccio (mesi prima aveva detto al suo angelo custode, Stefano Lo Verso: “Stai tranquillo, sono protetto dai politici e in passato da un potente dell’Arma. A me non mi cerca nessuno”).
Lui sapeva perché i carabinieri arrestavano molti uomini di Riina e pochi dei suoi.
Lui sapeva quale fonte istituzionale avvertì Cosa Nostra che Ilardo era un confidente e stava per diventare pentito, facendolo uccidere prima che mettesse tutto a verbale.
Lui sapeva quali politici amici si prodigarono per 10 anni per attuare punto per punto il papello, fino ad abolire l’ergastolo per due anni, a depotenziare il 41-bis, a disinnescare i pentiti e a promettere la “dissociazione” ai suoi fedelissimi in carcere.
Lui sapeva perché Riina lo chiamava “sbirro” e “carabiniere”.
Lui sapeva perché si lasciò catturare docilmente (dalla Polizia) a due passi da Corleone l’11 aprile 1996, all’indomani della vittoria del centrosinistra e alla vigilia del mega-indulto di Mastella&C.
Bernardo Provenzano sapeva tutto, ma non ha detto nulla. Da buon mafioso e da buon politico, ha tenuto la bocca chiusa. E non l’aprirà mai più. Le istituzioni democratiche e la classe politica, commosse e riconoscenti, posero.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 14 luglio 2016