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travaglio-c-barbagallo-190713-2di Marco Travaglio - 23 novembre 2014
Nell’estate del 1993, una settimana dopo le bombe mafiose a Milano e Roma (cinque morti e decine di feriti), mentre il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il premier Carlo Azeglio Ciampi, i presidenti della Camera Giorgio Napolitano e del Senato Giovanni Spadolini parlavano fra loro del piano destabilizzante di Cosa Nostra per spazzare via il 41-bis approvato dal Parlamento appena undici mesi prima dopo via d’Amelio e temevano un colpo di Stato, il ministro dell’Interno Nicola Mancino ipotizzava trame eversive di pezzi dei vecchi servizi segreti e il ministro della Giustizia Giovanni Conso non trovava di meglio che annunciare pubblicamente la chiusura della carceri di San Vittore e Regina Coeli: guardacaso proprio quelle delle due città appena colpite dalla furia stragista di Cosa Nostra. Tre mesi dopo, Conso avrebbe “liberato” dal 41-bis ben 334 mafiosi detenuti.

È quanto emerge dalla lettura dei giornali di quei giorni. Una lettura molto interessante, perché smentisce platealmente tutte le sciocchezze che si dicono e si scrivono da tre settimane a questa parte, cioè dal giorno (28 ottobre 2014) della deposizione di Giorgio Napolitano davanti alla Corte d’Assise di Palermo al processo sulla trattativa Stato-mafia. Secondo i commenti politico-giornalistici dominanti, la testimonianza sarebbe stata “inutile”, perché il presidente della Repubblica avrebbe ripetuto soltanto “cose vecchie e risapute”, già “tutte sui giornali dell’epoca”. Ma non è vero niente: che i massimi vertici delle istituzioni fossero a conoscenza della matrice “corleonese” come certa e univoca per le stragi dell’estate ’93 e del movente “eversivo” e “ricattatorio” per “alleggerire il carcere duro ai mafiosi”, è una novità assoluta; e che sapessero di un progetto di attentato per eliminare i presidenti delle due Camere, Napolitano e Giovanni Spadolini, è una notizia assolutamente inedita, che il capo dello Stato ha confermato solo quando il pm Nino Di Matteo gli ha rinfrescato la memoria, dopo aver a sua volta scoperto a metà ottobre in un fascicolo archiviato a Firenze il rapporto del Sismi datato 28 luglio 1993 che lo svelava.
Sillogismo Mancino. All’indomani della testimonianza del presidente, l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino (imputato al processo sulla Trattativa per falsa testimonianza) ha dichiarato al Corriere della sera e a Repubblica: “Se Napolitano non ha saputo niente della trattativa, se non ne hanno saputo niente i presidenti Ciampi e Scalfaro, perché avrei dovuto conoscerla io che non avevo alcuna competenza funzionale sulla questione del carcere duro?”. Ma il sillogismo non regge: il 10 agosto 1993 a firma della Dia (coordinamento interforze degli organi di polizia nella lotta alla mafia) di Gianni De Gennaro e l’11 settembre ’93 a firma dello Sco (Servizio centrale operativo della Polizia) di Antonio Manganelli, Mancino e l’allora presidente dell’Antimafia Luciano Violante furono avvertiti che Cosa Nostra stava mettendo a ferro e a fuoco l’Italia per “cercare una sorta di trattativa con lo Stato sulle questioni che più affliggono Cosa Nostra: il carcerario e il pentitismo”, e che dunque non bisognava cedere di un millimetro sul 41-bis. Che cosa fecero di quegli allarmi? Nulla di nulla. Mancino, poi, era il responsabile politico della Polizia, della Dia, dei servizi segreti e del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica: dunque aveva tutti gli strumenti per sapere quel che accadeva nelle carceri, ed è altamente improbabile che il 5 novembre ’93 gli sia sfuggita la transumanza di 334 mafiosi dal carcere duro al carcere molle. In ogni caso il paragone fra il ministro dell’Interno e i presidenti delle Camere, del Consiglio e della Repubblica non regge.
Mancino racconta che quella del 27 luglio 1993 – con le bombe in via Palestro a Milano e alle basiliche di San Giorgio al Velabro a Roma, ma anche con il black out del centralino di Palazzo Chigi che isolò per quasi tre ore il premier Ciampi – fu “una notte terribile, ma non avemmo alcun sospetto di infedeltà all’interno delle istituzioni, tanto che per quelle nostre verifiche così delicate ci affidammo senza alcuna riserva alle forze che avevamo a disposizione, nell’ambito delle polizie e degli apparati di sicurezza”. Ma la lettura dei giornali di quei giorni convulsi racconta una storia tutt’affatto diversa. Prendiamo, per comodità e autorevolezza, il Corriere della sera, il quotidiano più diffuso in Italia, allora diretto da Paolo Mieli.

QUEI FILI TAGLIATI. Nel 2010, nel suo libro di memorie scritto alla fine del suo settennato presidenziale, 17 anni dopo quei fatti, Carlo Azeglio Ciampi ricorda che il black out nella notte delle bombe, fra il 27 e il 28 luglio 1993, gli fece temere un “colpo di Stato”. E “colpo di Stato” è anche l’espressione usata da Napolitano, in quei giorni in costante contratto con il resto della “triade istituzionale”, formata da Scalfaro, Spadolini e lui. A svelare per prima il black out è, proprio sul Corriere, la giornalista Maria Antonietta Calabrò il 5 agosto 1993. Titolo di prima pagina: “Palazzo Chigi, il giallo del black out”: quella notte – scrive la Calabrò – “per ben due ore e mezzo Palazzo Chigi è rimasto isolato telefonicamente. La rete Sip che collega il centralino della sede del governo alla più vasta rete urbana, nazionale e internazionale, in passato controllata dal Sismi, è rimasta muta. E così pure tutti i numeri interni che uniscono fra loro, come si dice in gergo, punto-punto, i vari uffici. Funzionava solo la linea diretta con la batteria del Viminale, che è il centralino del governo gestito dal ministero dell’Interno”. Infatti il premier Ciampi, che era al mare a Santa Severa e si precipitò subito a Roma, e i suoi più stretti collaboratori, “per comunicare e dare le prime direttive sul da farsi, hanno dovuto utilizzare un telefonino cellulare privato”. La giornalista è molto informata, da fonti dettagliate e di primissima mano, tant’è che rivela la prima scoperta delle indagini in corso da parte dei servizi segreti: “Il ‘guasto’ non è dipeso dalla centralina interna al Palazzo. Il black out ‘proveniva’ dall’esterno”. Ed è stato questo episodio a indurre Ciampi a cambiare la sua agenda e a partecipare, il 2 agosto a Bologna, alla commemorazione della strage della stazione, facendo espliciti riferimenti alla loggia P2. Ma anche a “far cadere la sua scure sui servizi segreti”, rimuovendo da capo del Sisde – il servizio segreto civile di pertinenza del Viminale – prefetto Angelo Finocchiaro; e sollecitando una rapida riforma dei servizi, come se non se ne fidasse per nulla e volesse riprenderne il controllo troppo a lungo delegato al Viminale.

LE TRAME DEGLI SPIONI. Lo stesso giorno il Corriere pubblica un’ampia intervista al ministro Mancino, che si dice tutt’altro che fiducioso – diversamente da oggi – sulla lealtà del mondo dei servizi. Il titolo parla da sé: “Ex agenti dei servizi segreti tramano contro lo Stato”. Le parole esatte sono queste: “La Falange Armata (la sigla che ha rivendicato tutte le stragi e anche altri episodi criminali in quei mesi, ndr) merita maggiore attenzione. Non escluderei l’ipotesi di strutture autonome che si sono realizzate, sotto questa sigla, grazie all’apporto di uomini che in passato hanno fatto parte dei servizi segreti... Quanto ai servizi, non posso rispondere di eventuali deviazioni che risalgono a un periodo in cui ero un semplice parlamentare”. Poi parla di “infiltrazioni massoniche” fra “pochi uomini delle forze dell’ordine”. Infine minimizza il black out a Palazzo Chigi: “Potrebbe essersi trattato di un black out tecnico, ma prima di esprimermi in via definitiva attendo l’esito di questa indagine. Io comunque non ho mai parlato di golpe”. E manifesta un certo fastidio per il governo tecnico di Ciampi, di cui lui è praticamente l’unico ministro politico sopravvissuto: i giornali scrivono che Ciampi s’è ripreso il controllo sui servizi segreti e lui non gradisce: “L’attuale normativa riconduce in ogni caso, con o senza delega, la responsabilità dell’attività dei servizi al presidente del Consiglio. Quindi cosa si sia ripreso non si capisce”. Anzi “ci potrebbe essere una strategia diretta a colpire la parte del governo non ancora ‘tecnicizzata”, mentre “non è immaginabile che il Paese possa essere governato solo dai tecnici”. Oggi Mancino assicura che fu lui per primo, in quell’estate, a puntare il dito sull’unica matrice possibile delle bombe: quella del ricatto mafioso. Ma in quell’intervista, accanto alla pista mafiosa, ipotizzava fumosi “collegamenti interni e internazionali”. Interni con “forze occulte non ancora scoperte, ad esempio le deviazioni della massoneria” e con “quell’area, non facilmente definibile, che congloba forze che di fronte alla crisi del sistema tentano di occupare spazi politici. Internazionali legati ai “flussi finanziari sporchi”.

PISTE E DEPISTAGGI. Lo stesso guazzabuglio di piste che uscirà proprio l’indomani, il 6 agosto, da un vertice convocato al Cesis (il comitato che coordinava Sisde e Sismi) con i capi dell’intelligence, ma anche il capo della Polizia Parisi, il capo della Dia De Gennaro, il vicecomandante del Ros Mori e il vicecapo e uomo forte del Dap Francesco Di Maggio: una confusa relazione sulle bombe della settimana precedente, piena di indicazioni fasulle – alternative a quella mafiosa – al limite del depistaggio come quelle del terrorismo serbo o palestinese e del narcotraffico internazionale. Piste talmente assurde da indurre quattro giorni dopo la Dia (e un mese dopo lo Sco) a prenderne le distanze con una nota sulla mafia che vuole trattare sul 41-bis. Per ancor maggiore chiarezza, il 13 agosto De Gennaro si fa intervistare dal Tg2 e dice cose – sulla tridimensionalità della strategia stragista di Cosa Nostra & C. – che vent’anni dopo, sentito nell’inchiesta Trattativa, sembrerà aver in gran parte dimenticato: “L’ipotesi che questa strategia del terrore sia stata messa in atto dalla mafia è l’unica, allo stato, che trova dei riscontri indiziari o probatori”, anche se “non è un fatto nuovo che la mafia possa associarsi con altri diversi centri di potere e anche con centri di potere occulti. Noi pensiamo che la mafia, e soprattutto la sua parte siciliana non sia soltanto costituita da una sorta di forte e organizzatissimo apparato militare. Ci sono anche delle menti all’interno dell’organizzazione mafiosa”. E ancora, sul 41-bis: “La sicurezza della pena, le modalità detentive, l’isolamento dei mafiosi all’interno del carcere ci hanno consentito di indebolire profondamente l’organizzazione criminale”.
Eppure ancora il 27 agosto il Corriere, citando fonti investigative impegnate sulle stragi di Firenze, Milano e Roma, allinea accanto alla pista mafiosa una serie di piste alternative a quella prettamente mafiosa: “Gli investigatori della Dia ritengono che dietro alla nuova strategia del terrore ci sarebbero i boss di Cosa Nostra. Lo dicono alcuni pentiti, che parlano di un piano della mafia suddiviso in tre fasi: la prima, quella attuale, con autobombe che dovrebbero esplodere senza far vittime; poi dovrebbe essere la volta di attentati contro caserme di polizia e carabinieri; infine una vera e propria colombizzazione, con il rischio di stragi per distogliere l’ attenzione delle inchieste dagli interessi illeciti. I recenti attentati sarebbero stati affidati a frange esterne. A Milano potrebbero essere entrati in azione gruppi di slavi che, grazie ai loro contatti con serbi e croati, non hanno difficoltà a procurarsi l’esplosivo”. C’è addirittura l’identikit ancora segreto di una misteriosa “ragazza bionda, sui 27 anni, alta e magra”, segnalata in via Palestro da “due ragazzi sorpresi la sera stessa dalla polizia mentre fumavano hashish”: “in auto a poche decine di metri dal Pac (il padiglione di arte contemporanea, ndr), e avrebbero visto la presunta terrorista verso le 22.30”. Inutile dire che negli anni successivi nessun killer mafioso pentito, ricostruendo quegli attentati, parlerà di una donna sui luoghi delle bombe. Insomma: fra piste slave, serbe o croate, è come se pezzi di intelligence non si rassegnassero a puntare il mirino direttamente su Cosa Nostra.

LA GUERRA CIAMPI-MANCINO. Ma l’impressione che si trae leggendo il Corriere di quei giorni è anche un’altra: quella di una sorda guerra fra Palazzo Chigi (dove siede Ciampi, il supertecnico, sganciato dal vecchio sistema di potere) e il Vi-minale (dove troneggia l’ennesimo ministro dell’Interno democristiano, orgoglioso della sua appartenenza al vecchio sistema politico e insofferente verso i tecnici). Come se Ciampi e le fonti a lui vicine che hanno informato il Corriere sul black out sospettassero una manovra dei servizi del Vi-minale di aver tentato di ostruire il canale di comunicazione autonomo del capo del governo per obbligarlo a passare per la “batteria”, cioè per il centralino controllato dai vertici della Polizia e del Sisde.
Sempre il 5 agosto il Corriere dà conto di un vertice al Palazzo di giustizia di Milano presieduto dal procuratore nazionale antimafia Bruno Siclari per fare il punto delle indagini sulla strage di via Palestro. E sorprendentemente Siclari sembra collegare l’attentato più alle indagini milanesi su Tangentopoli che alle esigenze di Cosa Nostra: “Non è da trascurare – afferma – l’ipotesi del coinvolgimento di una certa finanza spregiudicata. La mafia non dovrebbe avere raffinatezze come quella di andare a colpire chiese o monumenti di valore storico, tuttavia è presumibile che possa fornire il suo contributo di manovalanza in termini di uomini. E non c’è soltanto la mafia, ci sono l’affarismo internazionale e le frange della P2 che continuano a svolgere la loro attività con schegge dei servizi segreti”. Anche lui, insomma, sembra sapere molto più di quel che dice, infatti punta il dito sulla Falange armata, che “rivendica tutto a posteriori e per ora è qualcosa che sfugge”.

IL CONTROLLORE OCCULTO. Il 6 agosto il Corriere “apre” con questo titolone: “Blackout, ancora mistero. Saverio Vertone, nel commento, si domanda “che cosa voleva” chi ha “tagliato i fili a Palazzo Chigi proprio la notte delle bombe a Roma e a Milano”. Risposta: “Mandare un messaggio a Ciampi, fargli capire che c’è un potere più potente del potere, uno Stato più Stato dello Stato, un’autorità più forte dell’autorità, insomma qualcosa che può togliere la spina al governo quando e come vuole? Questa ipotesi è più plausibile... Esiste da qualche parte un Controllore occulto, in grado di dosare e correggere il corso e il ritmo del mutamento”. Cioè “della cosiddetta rivoluzione italiana” innescata da Mani Pulite con le ultime scoperte su Tangentopoli, che con la maxitangente Enimont hanno appena portato alla sbarra tutti i leader dei partiti di governo. Intanto la Sip fa sapere che “la rete telefonica era perfettamente funzionante, il problema era interno a Palazzo Chigi”. La Presidenza del Consiglio conferma ufficialmente il black out, durato 2 ore e 40 minuti, dalle 00,22 alle 3,02 del 28 luglio: cioè è iniziato un’ora e 7 minuti dopo l’esplosione in via Palestro (alle 23,15) e un quarto d’ora dopo quelle di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano (rispettivamente alle 00,04 e alle 00.08). Il guasto avrebbe colpito due computer che assicurano l’autorigenerazione automatica del sistema, rendendo impossibile per quel lungo periodo le operazioni manuali di riattivazione, che di solito permettono il ritorno del sistema all’operatività in pochissimo tempo. Sempre più improbabile il guasto tecnico, anche perché di solito la rete “crolla” quando c’è un sovraccarico di chiamate: cioè in pieno giorno, non certo la notte. La Calabrò fa poi notare un particolare che avvalora le tensioni fortissime fra Presidenza del Consiglio e Viminale: “Solo le linee passanti da centralino – tanto più se si tratta di centrali complesse dotate di standard di affidabilità richiesti dalle procedure e dai codici della Nato per gli organi di governo – sono relativamente sicure e al riparo da possibili intercettazioni”. Qualcuno voleva costringere Ciampi a usare, proprio in quelle ore cruciali, apparecchi o linee intercettate? Gian Antonio Stella riferisce di un “acceso dibattito alla Camera”, anche perché “Mancino si rifiuta di riferire in aula”.

NESSUN GOLPE, PAROLA DI PARISI. Il 7 agosto il Corriere titola a tutta prima pagina: “Parisi dà le dimissioni, respinte”. La guerra fra Palazzo Chigi e Viminale è sempre più accesa, tant’è che – come informa Stefano Folli – “Scalfaro si affanna a ricucire tra Ciampi e i ministri politici”. Ciampi sale al Quirinale, lì raggiunto più tardi da Mancino e dal capogruppo socialista Fabio Fabbri. Poi riceve a colazione a Palazzo Chigi i presidenti dei due rami del Parlamento, Napolitano e Spadolini. La Dc difende Mancino a spada tratta e minaccia sfracelli sul governo se dovesse saltare. Dunque, scrive Folli, “Ciampi non può liberarsi di Mancino e neanche di Parisi”. Già, il capo della Polizia, fedelissimo del presidente Scalfaro: il 6 agosto ha rivelato di aver offerto il 3 agosto le dimissioni a Mancino, e fa pubblicare la sua lettera, in cui garantisce per “la piena affidabilità delle forze dell’ordine, garanzia piena per il sistema di libertà vigente, sicuro baluardo contro tentazioni d’ogni genere o prevaricazioni illiberali da chiunque praticate”. Una risposta alle mosse di Ciampi, frutto di timori su infedeltà istituzionali, ma anche alle parole di Mancino sugli ex 007 che potrebbero tramare contro lo Stato. Intervistato dalla Calabrò, Parisi spiega di aver voluto soltanto “chiedere una valutazione sul mio operato” e verificare che su di lui “l’atto di fiducia di Mancino fosse condiviso da tutto il governo”. Cioè anche dal fronte ciampiano, tecnico, dell’esecutivo, che invece preme per una forte azione di discontinuità. Respinta: Ciampi deve abbozzare e accontentarsi della testa del capo del Sisde Finocchiaro. Grazie anche al pressing di Scalfaro, al quale Parisi esterna tutta la sua “riconoscenza”. Poi assicura di avere “la certezza matematica che di golpe in Italia non ce ne potranno essere” perché le forze armate “sono a modello di una società integralmente e direi irreversibilmente democratica. Non di meno bisogna essere vigilanti non contro il pericolo del golpe, ma di atti destabilizzanti che possano incrinare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni”. E così, di punto in bianco, il capo della polizia sente il bisogno di rassicurare – con un’excusatio non petita – che le forze armate, quelle di Polizia e dell’ordine e quelle d’intelligence non faranno un golpe: la riprova che, nei vorticosi colloqui ai vertici delle istituzioni, di questo si sta parlando espressamente in quei giorni drammatici, ed evidentemente più d’uno ai massimi livelli delle istituzioni diffida della lealtà degli apparati di sicurezza. Le diffidenze provengono dall’area tecnica che fa capo a Ciampi, e anche dalle opposizioni di sinistra: infatti Mancino, nell’intervista al Corriere di due giorni prima, ha tenuto a precisare che “io comunque non ho mai parlato di golpe”. Altra excusatio non petita, fatta perché suocera intenda. Lo scambio dei messaggi in codice ai vertici dello Stato prosegue, con i giornali a fare da postini più o meno inconsapevoli.

LA MAFIA UCCIDE, CHIUDIAMO LE GALERE. L’8 agosto è domenica e sulla prima pagina del Corriere appare un titolo di taglio basso, a sinistra: “Conso dice basta: chiudere San Vittore e Regina Coeli”. L’articoletto, anonimo, riferisce che il guardasigilli, in visita al carcere di Volterra (Pisa) per uno spettacolo teatrale allestito da un gruppo di detenuti, ha parlato del sovraffollamento carcerario e della vetustà di alcuni penitenziari: “Le strutture esistenti sono fatiscenti, inadeguate, Regina Coeli e San Vittore continuano a essere al centro di polemiche legate alle condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti. Ma il governo, ha detto Conso, si sta muovendo”, anche assicurando “misure alternative più ampie” alla detenzione. È una notizia clamorosa, che meriterebbe ben altro spazio e collocazione: il ministro della Giustizia, mentre i boss e i parenti dei carcerati mafiosi continuano a inviare lettere e messaggi più o meno trasversali allo Stato contro il 41-bis e l’isolamento dei detenuti, vuole chiudere le carceri più grandi, popolose e famose di Milano e di Roma appena dieci giorni dopo la strage di Milano e le bombe di Roma. Che cosa salta in mente al guardasigilli di dare un simile segnale di cedimento a così breve distanza dalle ultime mattanze? Eppure la notizia è tutta lì, in poche righe sulla prima pagina del Corriere, senza rimandi ad alcun servizio più ampio nelle pagine interne e non suscitano la benché minima reazione politica. Somiglia molto a quei messaggi in codice dei servizi segreti, camuffati da inserzioni nelle pagine degli annunci commerciali. È come se il doppio avvertimento della notte del 27 luglio, a suon di bombe e di black out, fosse giunto immediatamente a destinazione e fosse stato recepito dal ministro che ha la responsabilità della politica carceraria e anche dei decreti di 41-bis.

IL GOLPE BIANCO, ANZI INVISIBILE. Nessuno in quei giorni, fuori dal Palazzo, può ancora sapere ciò che scopriranno 18 anni dopo i pm di Palermo: e cioè che il nuovo capo della Direzione amministrazione penitenziaria Adalberto Capriotti, imposto il 4 giugno da Scalfaro, Parisi e Conso al posto del troppo “rigoroso” Niccolò Amato (bersaglio di varie lettere di boss detenuti e di loro parenti che lo considerano un boia e un torturatore per la sua linea dura sul 41-bis), il 26 giugno – un mese dopo la strage di via dei Georgofili a Firenze – ha scritto proprio a Conso un appunto con tre proposte operative: un taglio lineare del 10 per cento dei 41-bis; la riduzione della loro durata da un anno a soli sei mesi; il mancato rinnovo del carcere duro a 373 boss detenuti. Il tutto – ha messo nero su bianco – per dare “un segnale positivo di distensione” nelle carceri. Il 7 agosto Conso lancia un primo segnale di distensione, annunciando la chiusura di San Vittore e Regina Coeli. Poi il 5 novembre, di nascosto, seguirà l’amorevole consiglio di Capriotti, non rinnovando il 41-bis a 334 mafiosi detenuti, infischiandosene del parere contrario della Procura di Palermo. Salvo poi, si capisce, negare – come Napolitano e Mancino, come tutti – qualsiasi trattativa, e financo qualunque cedimento dello Stato al ricatto di Cosa Nostra. E spalancare la strada a B., che proprio in quei giorni sta dando gli ultimi ritocchi a Forza Italia in vista delle elezioni anticipate del marzo ’94, amorevolmente assistito dall’amico (suo e di Cosa Nostra) Marcello Dell’Utri (in stretto contatto con il boss Vittorio Mangano). Il perfetto Gattopardo incaricato di fingere di cambiare tutto per non cambiare nulla e bloccare ogni vagito di possibile rinnovamento.
Saverio Vertone l’aveva scritto, profeticamente, sul Corriere del 6 agosto: “La cosiddetta soluzione politica (su Tangentopoli, ndr) non dev’essere confusa con un’inchiesta dimezzata; che invece può essere proprio un obiettivo dei misteriosi segnali inviati al governo attraverso la temporanea sospensione dei suoi telefoni. L’altro possibile obiettivo è ancora più preoccupante, e ricorda la favola di Barbablù. Il quale proibiva a ogni nuova moglie di aprire la stanza dove conservava i segreti delle precedenti. Di golpe in Italia si parla ormai da trent’anni, senza che se ne sia mai visto uno. Ma non è escluso che un golpe ci sia stato: lungo, interminabile e non percepito. E che si sia ridotto il sentiero tortuoso nel quale ci ha costretti a procedere la mano invisibile che ancora vorrebbe guidarci”.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 23 novembre 2014

Foto © Giorgio Barbagallo

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