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montalto-ciaccio0Il prossimo 25 gennaio saranno 30 anni dall'omicidio del magistrato.
di Rino Giacalone - 21 gennaio 2013
Le indagini che arrivarono a Riina e Gelli, il ricordo del magistrato in una intervista al giudice istruttore, Rocco Chinnici.

L’intervista è “sepolta” tra le carte dell’archivio de “I Siciliani” di Pippo Fava. E’ firmata da Lillo Venezia. Contiene le parole del giudice istruttore Rocco Chinnici dedicate al suo collega Ciaccio Montalto. Fu pubblicata su “I Siciliani” nel marzo del 1983 a poche settimane dal delitto del giudice trapanese Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Il prossimo 25 gennaio saranno 30 anni da quel delitto. La lotta alla mafia ha fatto passi in avanti da gigante, ma Cosa nostra non è rimasta a guardare. E la società civile in molte parti sembra essere ancora quella di quegli anni. Disattenta quanto basta a sembrare collusa se non a restare pienamente e coscientemente connivente. Ecco parte di quell’intervista a Chinnici fatta dal giornalista, Lillo Venezia.

Giudice Chinnici, la mafia ha colpito ancora una volta e sempre con l'identica ferocia, un altro magistrato, Ciaccio Montalto, un magistrato che da anni era in prima linea nella zona di fuoco di Trapani, per la quale passa buona parte del contrabbando di droga. Era un giudice che sapeva di poter essere assassinato. Perché allora si è fatto cogliere solo e indifeso? Anche Terranova e Costa vennero colti soli e indifesi, ma erano altri tempi. Sono trascorsi due anni ma è come se fossero trascorsi due secoli. Perché Ciaccio Montalto si è fatto cogliere così indifeso?
«E' una domanda difficile. Io opero in una sede giudiziaria diversa e quindi anche in un contesto diverso. Per quanto riguarda la protezione fisica del magistrato posso dirle che negli ultimi tempi a Palermo sono stati compiuti notevoli progressi: ci sono diverse auto blindate a disposizione, e sono anche molti gli uomini disponibili per la scorta armata. Comunque sufficienti. E' difficile oggi ammazzare un giudice a Palermo, o comunque ucciderlo come è stato ucciso Ciaccio Montalto. Per quanto io sappia anche a Trapani ci dovrebbe essere un'auto blindata a disposizione dei magistrati. Si tratta ora di capire perché non venne utilizzata».

Il giudice Ciaccio Montalto è stato ucciso prima ancora di potere concludere delle indagini decisive sul contrabbando della droga, cioè di avere elementi decisivi che si sarebbe portato appresso nella sua nuova sede di Firenze. Quale è stata la reazione dei giudici del trapanese: rassegnazione, collera, impotenza, paura? 
«Paura e rassegnazione mai. Dalla morte del loro collega i giudici di Trapani hanno tratto motivo umano e morale per continuare, anzi per accanirsi maggiormente nella lotta e proseguire le indagini in tutte le direzioni. La reazione a Trapani è stata la stessa che ha praticamente esaltato i giudici di Palermo dopo le ultime terrificanti imprese della mafia nella capitale. Questo è un messaggio onesto e chiaro e cosciente che posso lanciare alla mafia: Noi giudici siciliani non ci arrenderemo mai. Non avremo mai rassegnazione o paura. Per ognuno che cade ce ne sono altri dieci disposti a proseguire con maggiore impegno, coraggio, determinazione». 
 
A parte l'auto blindata, resta il fatto che il giudice assassinato era solo, senza scorta. 
«Spesso accade che un giudice, da solo, abbia più mobilità, più possibilità quindi di sfuggire a un agguato. Ma queste sono ipotesi. Io conoscevo Ciaccio Montalto per il suo coraggio e soprattutto per l'impegno che egli poneva contro la criminalità politica. Per lui non solo il terrorismo, ma anche la mafia era criminalità politica. Ebbi occasione di discutere questo aspetto del nostro lavoro pochi giorni prima che fosse assassinato, proprio al convegno di coordinamento fra magistrati impegnati in questo tipo di lotta. Ed era soprattutto un magistrato il quale credeva in una profonda riforma dei metodi di lotta alla mafia. Era convinto che uno strumento essenziale di lotta alla mafia fosse la cosiddetta legge La Torre. La mafia ne avrebbe subito un colpo mortale».
 
Un giudice, Ciaccio Montalto, che voleva anticipare i tempi, ci stava riuscendo, altri magistrati dopo di lui hanno continuato. Ciaccio Montalto aveva capito che bisognava arrestare i boss ma anche aggredire i patrimoni e incrinare sollecitando le collaborazioni il muro dell’omertà. Indagando era arrivato a santuari incredibili, anche a quelli che avevano come compito di corrompere i giudici per fermare i lavori investigativi.  E Ciaccio Montalto sapeva i rischi che correva. Non nascose mai di ricevere minacce, sia con lettere anonime sia per telefono, minacce di morte, mentre indagava sui rapporti di «Cosa Nostra» trapanese con la mafia americana, sul traffico della droga. Aveva intuito che nel trapanese esisteva una raffineria di eroina, fu trovata dalla Polizia il 30 aprile del 1985, ad Alcamo, in contrada Virgini, due anni dopo l’omicidio di Ciaccio Montalto e un mese dopo la strage di Pizzolungo, dove morirono Barbara Rizzo Asta ed i suoi due gemellini, Salvatore e Giuseppe di sei anni, straziati dal tritolo destinato al pm Carlo Palermo che da Trento era venuto qui a Trapani a continuare indagini sue e quelle stesse di Ciaccio Montalto. Quella raffineria era quella che rispondeva agli ordini di Pippo Calò, il cassiere della mafia siciliana. Quando alla Camera dei Deputati il deputato Leonardo Sciascia, nella seduta del 27 gennaio 1983,   puntò l’indice contro l’isolamento del pm Ciaccio Montalto, il ministro degli Interni dell’epoca, Virginio Rognoni, disse “che non gli risultava che Ciaccio Montalto avesse ricevuto delle minacce anonime”. Scenari e dichiarazioni che si ripeteranno per altri casi drammatici anche con altri ministri, che governavano, come si potrebbe dire oggi, “ a loro insaputa”.
 
Sfogliate le pagine dei rapporti di indagine firmati dal pm Ciaccio Montalto e troverte nomi oggi ancora presenti nel panorama criminale. Qualcuno ha anche fatto carriera. Mafia, casseforti, beni da sequestrare. Ma non solo, il giudice Ciaccio Montalto aveva anticipato che a suo avviso era necessario"…lavorare su una pista non ancora battuta: il trapianto della mafia trapanese in Toscana, ed il filone che accomuna mafia e massoneria...". Quando fu ucciso era prossimo al suo trasferimento presso la Procura di Firenze. Le indagini di Ciaccio Montalto lo avevano già portato da Trapani ad interessarsi di vicende nel centr’Italia. Nel 1982 nel bolognese aveva fatto arrestare un tale dal cognome altisonante, Giacomo Riina, fratello di Totò u curtu, il capo dei capi di Cosa nostra siciliana. Giacomo Riina quando fu arrestato era contabile della Eminflex, si sarebbe occupato di traffici di droga e di armi dalla Turchia. Materassi e massoneria. Dalla Eminflex alla Permaflex che aveva come direttore generale Licio Gelli il capo della P2 che ben conosceva Giacomo Riina. Ma anche Marcello Dell’Utri allora manager di Publitalia che in un battibaleno regalò dalla metà degli anni ‘80 il successo commerciale a quella azienda tra grembiuli e coppole. Quando già si era dimenticata quella indagine del pm trapanese Ciaccio Montalto che seguendo le orme dei mafiosi trapanese che si trasferivano in Toscana ed Emilia Romagna aveva appena intravisto i nuovi affari, e per questo arrivarono i killer ad ucciderlo.

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Tratto da: liberainformazione.org

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