di Gian Carlo Caselli* - 21 settembre 2012
Antonio Ingroia vive da oltre vent'anni scortato perché i criminali di Cosa Nostra vogliono ucciderlo. Eppure, qualche tempo fa, nell'aula del Senato, «mentre si citava il gravissimo fatto del programmato attentato distruttivo ordito contro alcuni magistrati», Ingroia si meritò da una parte dell'assemblea «un coretto di irrisione alla pronunzia» del suo nome (il virgolettato è tratto dal resoconto stenografico della seduta).
Il sindacato di categoria (Anm) e la corrente associativa (Md) cui Ingroia aderisce non ricordo che abbiano preso una qualche posizione in sua difesa. In questi giorni, invece, hanno lanciato — quasi in sintonia — durissimi documenti contro di lui. L'ultimo in ordine di tempo è quello di Md (Magistratura democratica), la sigla cui faceva riferimento — un tempo — un gruppo di magistrati che davano «scandalo» perché capaci di un modo di vivere, di pensare e di agire che li portava ad essere — come è stato detto — «dalla parte delle cose difficili da fare» e capaci «di fare le cose che altri non hanno la voglia o la forza o il coraggio» di fare. Si stenta a credere che oggi, invece, Md preferisca prendersela con un magistrato come Ingroia (neppure nominato, e tuttavia da tutti individuabile oltre ogni dubbio) proprio nel momento in cui egli — con altri valorosi colleghi — è impegnato nella difficilissima inchiesta solitamente rubricata alla voce «trattative» fra Stato e mafia. Un'inchiesta sulla quale è lecito esprimere valutazioni e giudizi anche assai diversi, ci mancherebbe. Ma senza che mai venga meno il rispetto comunque dovuto ad un impegno coraggioso guidato dall'interesse generale all'osservanza della legge. Di segno opposto sono invece le accuse, rivolte ad Ingroia da Md, di «approfittare dell'autorevolezza e delle competenze» che gli derivano «dallo svolgimento della attività giudiziaria». Come a dire che proprio chi si è meritato stima e considerazione per l'ottimo lavoro svolto dovrebbe... starsene zitto. C'è poi l'accusa di «esasperata esposizione mediatica anche attraverso la sistematica partecipazione al dibattito», che viene scoccata dopo aver rivendicato (come «fondante della identità del gruppo») «l'opportunità della partecipazione dei magistrati al dibattito politico»: si direbbe, dunque, un problema di... dosaggio degli interventi, e francamente non mi sembra questo l'aspetto più rilevante in tema di diritto-dovere dei magistrati di partecipare alla vita politico-culturale della società cui altrimenti sarebbero pericolosamente estranei. Vale anche per Ingroia, ovviamente, il limite di non parlare dei propri processi. Ed è un limite che Ingroia ha sempre rispettato (quindi nessuna sovrapposizione dell'intervento pubblico al lavoro giudiziario, come si legge nella nota di Md), posto che i suoi interventi — senza mai affrontare argomenti legati a specifiche posizioni processuali — si sono sempre mantenuti su di un piano generale, di storia della mafia e dei suoi intrecci perversi con la politica. A fronte di letture «interessate» e devianti di questa storia, Ingroia — come altri — interviene per un naturale riequilibrio delle parti, per evitare il consolidarsi di quelle «verità preconfezionate» che il documento di Md impropriamente evoca assieme al vecchio ma sempre verde ritornello dei magistrati in caccia di «consenso». Md, che un tempo era «eresia» introdotta in un corpo burocratico sostanzialmente conformista, oggi non può orientarsi (quali che siano le intenzioni contingenti) verso forme di sgradevole «normalizzazione».
*Capo della Procura della Repubblica di Torino
Tratto da: Corriere della Sera