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L'indifferenza e l'omissione possono inquinare le coscienze
di Gian Carlo Caselli - 27 dicembre 2010
Come non esiste una sola mafia, così non esiste una sola Chiesa. Ne consegue che è impossibile comprimere entro schemi monolitici ed onnicomprensivi  le relazioni fra il mondo mafioso  e quello della Chiesa.



Certo è che in questo  panorama complesso risulta minoritaria la Chiesa che occupa posizioni di frontiera per come  sa concretamente  interpretare il suo rapporto con le varie forme di illegalità fino a quella mafiosa.

Mi riferisco alla Chiesa che sa parlare di legalità e di mafia uscendo dalle sacrestie. Non tanto le sacrestie come luogo fisico: piuttosto quelle che sono dentro ciascuno di noi, come perimetro  che costringe ad occuparsi soltanto di determinati ristretti argomenti, mentre  uscire dalle sacrestie  significa coinvolgersi nella più ampia logica sociale. Significa non limitarsi alla sola osservanza dei   precetti formali, ma anche operare con passione, sacrificio, impegno:  con attenzione ai problemi che angosciano la comunità, e con speciale sensibilità per le esigenze dei più deboli. Chiesa di frontiera è quella che  considera peccato non solo fare le cose che non si devono fare, ma anche non fare certe cose.
 
Perché anche l’indifferenza, anche l’omissione possono inquinare le coscienze. Maggioritari, invece, sono quei settori della Chiesa  che si accontentano di un fiacco giustificazionismo, che sono perennemente alla ricerca  ( spesso in funzione  autoassolutoria) dei più svariati pretesti  per continuare a coltivare rapporti ambigui con mafiosi e paramafiosi. Finendo per sottovalutare sistematicamente la realtà della mafia e per conviverci senza mai articolare una reale opposizione, rendendo debole la parola profetica della Chiesa nella società. Senza neppure chiedersi il perché di tanta  consolidata severità (giusta e sacrosanta) nei confronti dell’ideologia totalitaria del comunismo, a fronte di un’incredibile tolleranza verso la “sacralità atea” della mafia.
 
Chiesa di frontiera, invece, è quella capace di rompere il giogo delle mediazioni e degli accomodamenti, capace di uno scatto di responsabilità, di uno scatto d’anima  - spirituale e concreto – che tenda a coinvolgere tutti i cristiani. Chiesa coraggiosa -   quella di frontiera -   perché non ama il quieto vivere, non si accontenta di ipocrisia civile e devozionismo religioso, ma sa vedere il suo prossimo, sa lavorare ad una comunità finalmente capace di rompere le ingiustizie, ripartendo dalla Costituzione.
 
Ogni tanto la Chiesa maggioritaria subisce scossoni terribili e sembra risvegliarsi: è  avvenuto nel maggio 1993, quando Giovanni Paolo II, ad Agrigento -  il volto indurito, il braccio levato -  urlò contro i mafiosi parole di condanna aspre, intransigenti e crude, mai ascoltate prima;-  è accaduto con l’assassinio di  don Puglisi (settembre 1993) e don Diana (marzo1994).  Ma poi riemergono i vecchi vizi: si conferma l’incapacità di uno stacco netto dal passato; certe componenti si contrappongono addirittura alle istituzioni dello Stato, rivendicando per sé il  privilegio di essere sciolte dagli obblighi di legge (come nel caso del carmelitano Frittitta, accusato di aver favorito la latitanza del capomafia Aglieri).
 
Qualcuno, con spudoratezza consentita  soltanto dall’anonimato,  si spinge a dire che “padre Puglisi è stato assassinato non perché si sia esposto più di altri ma perché è stato più sfortunato” (citato da A. Dino, in “La mafia devota”). Ma i più partecipano al rito delle commemorazioni in pompa magna della vittima per purificarsi della propria inerzia , recuperare l’onore perduto e continuare tutto  più o meno come prima. Lasciando i preti di  frontiera sempre più isolati ed esposti.
             
 
PS: Ho volutamente omesso di fare nomi di preti di frontiera di oggi, ma chi volesse conoscerne qualcuno può trovarlo in “Libera”.  Ma non solo.

Tratto da: liberainformazione.org

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