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600 giorni in cui non abbiamo conosciuto riposo, pace, conforto.
Dal primo giorno di guerra, fino a questo momento, l'ansia ci ha consumato, la paura è diventata la nostra compagna costante e i nostri cuori hanno dimenticato cosa sia la gioia.
Abbiamo perso nostro figlio, Rakan.
Abbiamo perso la nostra casa, il tetto che un tempo ci riparava.
Persino la casa della mia famiglia, dove sono cresciuto, ora è solo un ricordo sepolto sotto le macerie.
Tutto è andato perduto: i miei diplomi universitari, i miei documenti d'identità, i miei vestiti che un tempo custodivano ricordi di occasioni e momenti speciali, ora ridotti in cenere, a un'immagine sbiadita nella mia mente.
Non avrei mai immaginato che avremmo dormito per strada o vissuto in una tenda.
I nostri sogni sono stati infranti, le nostre speranze distrutte.
Ci sentiamo come intrappolati in un incubo senza fine, come se avessimo perso noi stessi in mezzo a tutta questa oscurità.
La fame ci tormenta.
L'umiliazione ci schiaccia.
La perdita della dignità umana ci perseguita ad ogni respiro.
Lunghe file per l'acqua. Lunghe file per il cibo.
Niente scuole. Niente assistenza sanitaria. Niente umanità.
È come se vivessimo in una giungla, solo che nella giungla almeno si trova qualcosa da mangiare.
Ma nonostante tutto il dolore, nonostante la morte che ci circonda, restiamo qui. Non ce ne andremo. Questa è la nostra terra. Questa è la nostra casa.
Perché dovremmo andarcene? Per chi? A chi dovremmo abbandonare la nostra terra e i nostri ricordi?
Non ce ne andremo. Anche se dovessimo morire in piedi, non ce ne andremo.
Questa è la nostra terra: qui siamo nati, qui moriremo e qui resteremo, nonostante il dolore, nonostante l'oppressione, nonostante tutto.

Tratto da: x.com/PalPress24 

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