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L’esclusione della crudeltà nega la natura sistemica e culturale del fenomeno del femminicidio

Filippo Turetta ha massacrato la sua ex fidanzata, Giulia Cecchettin, colpendola 75 volte con un coltello nell’arco di 20 minuti” di “accanimento. La criminologia chiama questo fenomeno ‘overkill’, iper-violenza. Non si tratta solo di togliere la vita, ma di cancellare simbolicamente la vittima. È un atto che gronda significato: ogni fendente in più rispetto a quelli necessari per uccidere esprime rabbia, dominio, la volontà di distruggere l’identità stessa della persona, la sua indipendenza, la sua capacità di dire ‘no’. Turetta, secondo le perizie, non è affetto da vizio di mente. Rappresenta piuttosto il volto più comune del femminicidio: l’uomo ‘normale’ che non tollera il rifiuto, la perdita di controllo”.
È questa l’analisi del criminologo forense Federico Carbone pubblicata su Dark Side pubblicata su Dark Side in merito al femminicidio di Giulia Cecchettin.
Secondo il criminologo “la premeditazione è evidente: il coltello comprato in anticipo, il luogo isolato scelto per l’aggressione, il tentativo di nascondere il corpo, la fuga pianificata. Elementi che la Corte ha riconosciuto. Eppure, al momento di qualificare l’efferatezza dell’atto finale, qualcosa si è fermato”.
Per i giudici “non è stato crudele”.
“Il 3 dicembre 2024, la Corte d’Assise di Venezia emette la sentenza: ergastolo. Riconosce la premeditazione, il sequestro di persona, l’occultamento di cadavere. Ma l’aggravante della crudeltà, no. Settantacinque coltellate, sferrate in un arco di venti minuti, non sono state ritenute crudeli dalla giustizia, quella delle aule, non quella che ribolle nella pancia del Paese. Cos’è, dunque, la crudeltà per la legge italiana oggi?”
“Questa domanda - ha scritto il criminologo - non trova risposta solo in una sentenza, ma riflette lo scollamento profondo tra il diritto e la percezione collettiva della violenza, in un’Italia dove la morte di una giovane donna e le sue settantacinque ferite diventano, ancora una volta, terreno di scontro tra norme, opinione pubblica e una difficoltà diffusa nel chiamare le cose con il loro nome più scomodo”.
Per la Corte “le settantacinque coltellate sarebbero ‘effetto dell’inesperienza’ di Turetta nell’usare l’arma, non di un sadico compiacimento nel prolungare la sofferenza. Una spiegazione tecnica che suona stonata di fronte alla brutalità dei fatti. È davvero solo inesperienza? O si è preferito non spingersi fino in fondo, non usare una parola – crudeltà – che avrebbe avuto un peso simbolico enorme?”
Escludere la crudeltà nel dibattito sulla violenza contro le donne in Italia rischia di negare la natura sistemica e culturale del fenomeno, radicato in una logica di possesso e controllo. Nel 2023, 120 donne sono state uccise, spesso da partner o ex, ma il sistema giuridico tende a sterilizzare l’orrore con formule tecniche, come il paradosso di quante coltellate definiscano un atto crudele. La vicenda di Turetta non è un’eccezione, ma il prodotto estremo di una cultura che normalizza gelosia e rifiuto come offese personali, educando al controllo anziché al rispetto. Le condanne da sole non bastano: serve affrontare l’humus culturale che rende possibile questa violenza.

Fonte: Darksideitalia.it

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